“Se agli inizi del Biodesign il termine generico Biomateriali poteva significare una bioplastica DIY ma anche un pannello in micelio, il termine più preciso è oggi biofabbricazione, intesa come la produzione di materiali e prodotti a partire da materie prime come cellule o organismi viventi”.
Il termine biomateriali si riferisce più genericamente a tutti quei materiali a base biologica, la cui sperimentazione e applicazione è sempre più importante in settori come il design, l’architettura, il packaging e il fashion, racconta Barbara Pollini. Ecodesigner, docente alla Naba di Milano e ricercatrice, si occupa di biomateriali da anni, coronando la sua carriera nel 2023 con un Dottorato di Ricerca in Design presso il Politecnico di Milano sui temi del Biodesign e della Biofabbricazione per la transizione sostenibile.
Abbiamo discusso con lei le ultime evoluzioni in tema di biomateriali (o, meglio, di materiali biofabbricati) in un momento di grande evoluzione e impatto delle biotecnologie nel settore dell’architettura e del design.
Che tipo di risorse vengono utilizzate per creare questi 'biomateriali'?
Un esempio del loro utilizzo nel settore design e quali potrebbero essere le applicazioni future?
Barbara Pollini: “Ad oggi dividerei le possibilità date dai processi di biofabbricazione dalle sperimentazioni di biodesign perché questi due filoni hanno delle finalità diverse che portano anche a una differente estetica.
I materiali biofabbricati sono più standardizzati perché mirano alla scalabilità industriale: qui un organismo come il micelio può produrre packaging, pannelli fono assorbenti, pavimentazioni, e materiali similpelle o essere impiegato come substrato in elettronica.
Batteri di natura diversa (ma sempre non patogeni) possono dar vita a filati (Nanollose🙂 o tinture (Pili); oppure, nel settore delle costruzioni, a cementi autoriparanti e a mattoni creati da scarti edili senza l’uso di energia (biomason).
Per le alghe invece gli impieghi materici più industriali le vedono impiegate come fillers, ad esempio nella carta o nella plastica, e come inchiostri (LivingInk).
Queste sperimentazioni, con un carattere a volte più speculativo, aprono strade nuove per estetica ed applicazioni.
Parlando di applicazioni future, sicuramente c’è una forte attenzione per quello che questi organismi possono fare nel loro stato vivente, per esempio essere impiegati come biosensori o come 'costruttori' in architettura o illuminare attraverso meccanismi come la bioluminescenza. Questo getta le basi per un design multispecie, che implica anche una condivisione sinergica degli spazi costruiti.”
Dove si producono questi materiali e con che logiche?
Barbara Pollini: “Dipende dall’organismo e dal materiale ottenuto. Ci sono bioplastiche ottenute dai batteri (il PHA) che una volta estratte, sono lavorabili con i macchinari tradizionali. Tuttavia, ci sono anche processi innovativi, che sono più simili a impianti di agricoltura verticale (es. produzioni in micelio) o che sono veri e propri impianti di fermentazione (come per i batteri o gli enzimi).
Che limiti ci sono ad oggi nell’utilizzo dei materiali biofabbricati?
Barbara Pollini: “Il limite più grande oggi è che siamo ancora in una fase di sperimentazione: anche se alcune aziende e startup hanno collaborazioni con le case produttrici per delle piccole collezioni, parliamo sempre di tirature limitate. Industrializzare un processo biologico richiede tempo, soprattutto perché gli standard della scalabilità spesso non sono in linea con le caratteristiche del vivente.
Ad oggi alcuni biomateriali (qui intesi genericamente sia come bio-based che come biofabbricati) vengono trattati con delle finiture o dei fillers non naturali per aumentarne le prestazioni e la durata, ma queste strategie sono controproducenti perché compromettono il fine vita virtuoso del materiale.