Il design cerca una comunicazione più vera e intima. Per diffondere cultura progettuale e inventare il nuovo retail

Non tutto il digitale vien per nuocere. È merito suo se la comunicazione evolve e si misura con nuove modalità e nuovi argomenti. Se i brand cercano un contatto più umano con i propri clienti e se, per così dire, cominciano a chiamarli per nome. In fondo le aziende si sono trovate con degli sconosciuti in casa: internet ha disintermediato i contatti, ha portato clienti, potenziali o no, al confronto diretto. Tutti ne hanno beneficiato, scoprendosi vicendevolmente più prossimi. Ci si dà del tu, metaforicamente. I prodotti vivono in case vere, sono l’oggetto di ironie famigliari, di conversazione informale.

Le chiacchiere amichevoli non si giocano sul tentativo di vendere ma di conoscersi. La casa è il luogo ideale e i racconti, il naturale gossip instinct, diventano i contenuti. I brand fanno broadcasting diretto, costruiscono cultura intorno ai prodotti. A volte si trasformano in mecenati del prodotto artistico tout court. Basti pensare alla sponsorizzazione dei podcast come Morgana, o alla produzione di film, video, libri, conferenze. B&B Italia e il suo podcast “The Couch”. Flos e il video “We aren’t just another lighting company”. Nessuno pronuncia la parola: “Comprami”, anche se sappiamo che tutto è in vendita. Il salto di livello è evidente: da quando la comunicazione si è umanizzata, tutti ne hanno guadagnato. E lo strumento principe è internet, perché il mainstream fatica ancora molto, benché tenti la strada del placement e, a volte, riesca a diffondere cultura con serietà.

“Finalmente arriva anche il design” esclama Paolo Iabichino, uno dei “guru” della comunicazione in Italia. “Non poteva rimanere estraneo all’evoluzione senza rischiare di chiudersi in una nicchia molto stretta. Tono e registro della comunicazione devono risuonare con i valori delle persone”.   Sono fenomeni che umanizzano la comunicazione: esattamente quello di cui abbiamo bisogno. Ne parla persino Francesco Bergoglio, suggerendo ai comunicatori di seguire l’invito a “andare e vedere”, a incontrare le persone e non a limitarsi a indottrinarle o a vendergli qualcosa. Il compito del design, secondo Iabichino, è: “Alfabetizzare il maggior numero di persone a una certa sensibilità, al bello fatto bene”. Serve ad aprire gli occhi sulla tossicità dell’iperconsumo e sul valore di un prodotto che può durare per generazioni. “Sensibilizzare è una bella vocazione” continua Iabichino, “serve a avvicinare il grande pubblico al rispetto delle maestranze e di una filiera di valore, alla sostenibilità dei prodotti, e a un retail pensato per celebrare liturgie di incontro, non solo vendite”. Il design può disinnescare una certa forma di ignoranza legata a un consumo non consapevole. “È un settore colto, che dispone di competenza e di designer capaci di grandi mediazioni culturali. È l’ideale per disinnescare le tentazioni consumistiche che impediscono di riflettere sul valore del prodotto”.

Molti marchi stanno lavorando sulla produzione diretta di contenuti che, più che vendere o tentare il product placement, mirano a celebrare un preliminare, ad “andare e vedere”. Gallotti&Radice ha recentemente presentato il video “Homescapes, embracing beauty” che è un excursus poetico fra i pezzi vecchi e nuovi dell’azienda. I corpi che abitano lo spazio e usano gli oggetti spiegano più di molte parole cosa significa entrare in relazione con qualcosa che è bello e dura, che è fatto bene, di cui si può immaginare l’origine e, di conseguenza, la fine.

Minotti ha scelto una strada simile per presentare le novità del 2020. La serie di tre video si intitola Endless Moments of Pleasures. Tre minuti dei pensieri di personaggi immaginari che raccontano la relazione con la casa, con la bellezza e il suo valore di rifugio e di serenità. Niente è urlato, tutto parla. Lo spiega bene bene Paolo Iabichino: “La prima competenza è la sensibilità. Ci vogliono pazienza, maturità, concentrazione e prudenza per comunicare in modo evoluto”.