L’ingresso nella terza decade del nuovo secolo porta a compimento la transizione da un ‘prima’ a un ‘dopo’ nella cultura del design, verso una nuova normalità che prefigura uno stadio post-contemporaneo del progetto. Ne abbiamo parlato con quattro designer, protagonisti in modo diverso della scena attuale, che hanno vissuto questo passaggio epocale in prima persona

Il lungo addio

Il cambio di paradigma culturale dovuto all’avvento del digitale si è svolto a una velocità senza precedenti nella storia dell’umanità (molto più forte, per fare un confronto, di quella con cui la rivoluzione della stampa a caratteri mobili e quella industriale dispiegarono i propri effetti). Al punto che, fatto anch’esso senza precedenti, la generazione di chi oggi ha tra i quaranta e i cinquant’anni può dire di essersi formata in una civiltà e avere iniziato a lavorare in un’altra. Per i designer, far parte di questa “generazione ponte” significa avere un piede nell’analogico e uno nel digitale, condizione del tutto speciale che offre una prospettiva unica sul mondo del progetto.

La pensa così Thanos Zakopoulos, co-fondatore di CTRLZAK Studio, per il quale appartenere a questa generazione vuol dire essere tra “i più privilegiati nella storia dell’umanità, proprio perché siamo stati testimoni di questo passaggio epocale che sta cambiando e cambierà profondamente il modo in cui gli umani si relazionano con il mondo naturale, ma anche perché saremo probabilmente tra gli ultimi ad aver vissuto il pianeta Terra in uno stato ancora non del tutto alterato”.

Da dietro l’inerzia del vecchio mondo spinge ancora, mentre da davanti quello nuovo attira e risucchia. Ne deriva, nota Odoardo Fioravanti, la necessità di individuare nuove forme di mediazione: “Ho affrontato entrambe le culture, incastrato tra gli ultimi tecnigrafi i primi 3D al CAD e lì ho capito che avrei dovuto mediare in un momento di trasformazione, ma tutto sommato sono felice di aver messo radici nella cultura libresca e che i rami siano cresciuti in quella digitale. Mi rimane una gioia dell’approfondimento che nella cultura digitale è un po’ cambiata, una ricerca di senso che si dispiega in modo più sofisticato di una didascalia su Instagram. Potrei dire che ho imparato a cercare un significato ‘ex ante’, mentre oggi mi pare sia più comune cercarlo ‘ex post’”. Il mondo prima e quello di adesso sono in effetti caratterizzati da velocità diverse, tra le quali non è stato immediato destreggiarsi.

Andrea Maragno dello studio JVLT ricorda di aver provato in un primo momento una sorta di ansia da prestazione verso le logiche 'visive' del nuovo paradigma: “Mi riferisco soprattutto all’aspetto comunicativo e quindi ai social network. Ricordo un post ‘stizzito’ di Karim Rashid su Instagram in cui dichiarava la chiusura del suo profilo, in quanto, nonostante l’impegno quotidiano nel produrre contenuti, non riceveva feedback pari alle sue aspettative. Questo episodio descrive bene lo scenario ‘design’ e la sete di comunicazione che c’è nel nostro panorama. Da lì in poi le cose sono andate sempre peggio fino ad arrivare al progetto di prodotti ‘instagrammabili’. Con il tempo, comunque, il mio rapporto con i social è cambiato. Non li odio e non li amo, l’ansia da prestazione è passata. Non me ne occupo personalmente, li considero dei normali strumenti senza nessuna aspettativa e nessuna pretesa. Sarebbe disonesto dire che non sono importanti e che non servono”.

Cauta anche l’opinione di Giulio Iacchetti, per il quale, a ben vedere, “i cambiamenti non sono mai repentini. Indugiamo nel raccontarli così, siamo affascinati da una storia romanzata dove ci si addormenta in un mondo e ci si sveglia in un’altra epoca, ma la realtà è un’altra. Sono sicuramente nato e cresciuto in un ambiente analogico fatto di telefoni con la pulsantiera, fax, tecnigrafi, disegno a mano libera e tante lettere spedite per posta. Detto questo, ricordo che Internet, l’email, AutoCAD, il PC prima, il Mac poi sono stati parte del mio mondo dall’inizio degli anni '90. Ricordo che la stampa 3D l’ho utilizzata già in alcuni progetti del 1998. Sicuramente sono della generazione ponte, ma il ponte tra analogico e digitale lo percorro in continuazione, avanti e indietro. Se poi mi si chiede quale sia la sponda che preferisco, direi che a metà del ponte si sta benissimo e si gode del miglior panorama per comprendere il mondo del progetto”.

Il nuovo mondo

Percorrere il ponte avanti e indietro vuol dire attingere da due sfondi culturali diversi, il cui confronto porta ad affrontare un’altra questione 'di passaggio', tra la vita di prima e quella dopo la pandemia, che ha impresso una forte accelerazione alla convergenza - che era già in atto - tra reale e digitale. Tanto che per le nuove generazioni l’integrazione tra reale e virtuale non è nemmeno più un punto d’arrivo ma un punto di partenza, come esemplificato dal recente fenomeno del design virtuale che vede 'prodotti' realizzati esclusivamente sotto forma di rendering venduti con tecnologia NFT. Di fronte a questi nuovi fronti di ricerca viene da chiedersi se, dopo il divorzio del concetto di “design” da quello di “industrial” che ha segnato l’inizio del design post-industriale, non si stia oggi entrando nell’epoca del design “post-reale”, in cui la forma si emancipa completamente dalla funzione per dedicarsi interamente ai virtuosismi estetici dei “metaversi”. Questo ulteriore grado di separazione modificherà in maniera sostanziale il panorama del progetto?

Innanzitutto, per Zakopoulos, “non si tratta di un cambiamento inaspettato, ma di nuove forme di espressione che si appropriano di mezzi diversi seguendo l’evoluzione della società umana. Quello che però spesso succede in questi casi è che si dimentica la sostanza del progetto e ci si concentra sulla novità di espressione ‘epidermica’. Mentre ciò a cui si dovrebbe prestare attenzione è trovare il modo di (inter)agire senza dimenticare la vera motivazione (oltre a quella economica) che sta alla base del progetto”.

Ancora più risolute le parole di Fioravanti, che esprime scetticismo nei confronti dell’effettivo livello di novità introdotto da questi esperimenti: “Già nel 2010 avevo scritto del fenomeno degli oggetti che esistevano solo sui siti dei designer, solo in foto o come rendering. A quei tempi erano o concept o residui di cose andate storte o fuori produzione. Pensavo che ci sarebbe stato un modo per retribuire il design come una sorta di ‘concerto live’ in cui il pubblico paga per vedere il ‘farsi’ di un oggetto che non può avere né usare. Quello che sta accadendo con certe piattaforme social mostra come un certo design, che non esiste se non in forma digitale, crei un vuoto che attrae soldi in modo indiretto. Come le ali degli aerei che fluttuano nell’aria perché aspirate da un vuoto aerodinamico al di sopra di loro e non perché appoggiano sull’aria al di sotto. Sarà sempre più come la TV, in cui i contenuti sono la parte economicamente inefficace e i vuoti (la pubblicità) quella efficace. Guardo i fuochi d’artificio, poi però mangio la salamella”.

Post-maestri

La contrapposizione tra una bellezza applicata al prodotto (la salamella) e i voli pindarici di una bellezza totalmente virtuale (i fuochi d’artificio) si allarga fino a riverberare nel più generale passaggio epocale dal tempo dei maestri e quello attuale che potremmo definire dei “post-maestri”. Storicamente, infatti, la figura del maestro è stata resa possibile da una serie di circostanze, tipiche del Novecento, che oggi non esistono più, in particolare dal ruolo delle grandi ideologie (o “meta-narrazioni”) a favore o contro le quali schierarsi. Immersi in un flusso di cambiamento frenetico e dissipatore, è sempre più difficile mettere a fuoco blocchi sociali coesi caratterizzati da problematiche identitarie, così che, venute meno le contrapposizioni sociali 'stabili', sono venute meno le condizioni per il coagularsi della figura del maestro e si fa spazio una generazione di “maestri con un solo allievo: sé stessi”, le cui strategie progettuali, per quanto riflessive, non paiono esportabili al di fuori dell’esperienza del singolo.

Su questo punto è d’accordo Iacchetti: “Oggi non si prende più posizione perché non ci sono più posizioni da difendere. Non è una dichiarazione di pace, forse è solo un armistizio: nessuno è più disposto a combattere battaglie ideologiche a favore o contro il decoro, o contro il minimalismo, a favore del progetto popolare o contro il progetto borghese. Anche la questione dei maestri, argomento canonico per il mondo del progetto in Italia, ha perso di mordente semplicemente perché al di là dei grandi ‘nonni’ del progetto (Magistretti, Mari, Sottsass, Castiglioni, Munari, Mangiarotti, Mendini, per citarne alcuni) a seguire c’è stata una generazione di progettisti che non ha espresso e non esprime alcun valore ‘magistrale’. Con questa classe di progettisti si è interrotta la catena del magistero e la generazione successiva, ovvero la mia, si è sentita libera di creare una propria identità, dei propri riferimenti anche molto volatili e passeggeri. Mi pare che oggi funzioni di più un elenco di prodotti capaci di rappresentarci piuttosto che l’identificazione con un unico maestro. Non c’è più il nome di un maestro consolidato e perentorio, ma un coacervo di progetti generati da diversi designer in grado di creare una personale identità di riferimento e un luogo mentale dove sia possibile riconoscersi”.

Coacervo di post-maestri e di fronte un coacervo di post-allievi, discenti pulviscolari che non formano più una classe organica ricettiva nei confronti di un pensiero magistrale. La pensa così anche Fioravanti: “La direzionalità del sapere, il vettore che dal docente puntava al discente, non solo ha perso una direzione, ma ha anche smesso di esistere. Forse siamo case senza porte che ricevono cose e persone dall’esterno in modo osmotico, lasciandole filtrare attraverso i muri. Il sapere di uno non fa in tempo a sedimentarsi in un riconoscimento perché nel frattempo se ne sovrappongono altri, come strati sottilissimi che si aggiungono con tempi emulsionati e modi omeopatici. Nell’atto del lasciar passare corpuscoli posso intravedere in qualcuno una maestria, ma è più simile a un miraggio su cui manca la voglia di credere fino in fondo”.

Non solo gli oggetti, quindi, ma anche i pensieri possono essere dei miraggi, immagini che non corrispondono alla realtà e che vanno non tanto respinte quanto piuttosto riconosciute come tali, come insegna, fra l’altro, il buddismo zen, che Maragno ha accolto fino a intraprende un percorso di monacato, e che a questo proposito immagina un mondo distopico popolato da “post-maestri virtuali sotto forma di intelligenze artificiali ‘donne’ progettate da ingegneri uomini (che non sanno nulla di design) per continuare a imparare senza insegnare nulla. Questi post-maestri progetteranno per la post-industria guadagnando in criptovaluta così da potersi permettere un corpo fisico e vivere una realtà tangibile atta a soddisfare il proprio ego, come gli esseri umani, i quali faranno di tutto per dematerializzarsi progettando ‘oggetti immaginari’. Il marketing fallirà perché l’unica cosa da raggiungere sarà una consapevolezza non in vendita ma ottenibile. L’essere umano andrà in crisi e si rivolgerà a Maestri (non di design) che indicheranno la Via: ‘Maestro, come raggiungo l’altra sponda del fiume?’, e dalla riva opposta il Maestro risponde: ‘Sei già sull’altra sponda del fiume’”.