In Largo Isarco a Milano, la Fondazione Prada inaugura la Torre, dinamico White Cube verticale. Si completa così la cittadella dell’arte che, nella sua estrema varietà di tipologie spaziali, vecchie e nuove, tutte reimpaginate da OMA, stimola una densa piattaforma di interazioni con il pubblico

Tre anni di cantiere ed eccola, con i suoi 60 metri di altezza, l’attesissima torre di OMA a Milano, che completa la Fondazione Prada di Largo Isarco. L’edificio, che occupa lo spazio d’angolo a nord ovest lasciato libero in origine sul lotto, ha aperto al pubblico in aprile. Noi l’abbiamo visitato in anteprima, quando i lavori nei suoi dieci piani fuori terra erano ancora in corso.

In compagnia di Federico Pompignoli, project leader di OMA per la Fondazione, che ci ha raccontato nel dettaglio il backstage della nuova sede museale. L’unica nel compound di 19.000 mq visibile da lontano che, rapportata al tessuto urbano, si percepisce subito come landmark e segnale stradale.

Sviluppata in verticale, per nove piani fuori terra, è stata realizzata in calcestruzzo strutturale bianco a vista, personalizzato in termini di qualità estetica rispetto a quanto OMA aveva già testato nella Casa da Música di Oporto, nel 2005, specificando alla Calcestruzzi la mescola desiderata: gli inerti non sono di ghiaia tradizionale, virante al grigio, bensì di cangiante marmo bianco di Carrara.

La presenza della torre corona il patchwork di tipologie edilizie (e sistemi costruttivi) che integra i vecchi spazi industriali dell’ex distilleria dei primi Novecento riconvertiti in spazi museali di tendenza internazionale – nella prima fase dei lavori – con quelli nuovi, flessibili e infrastrutturati (come il Podium), realizzati nella seconda.

“La torre si ispira”, spiega Pompignoli, “al modello del White Cube che muove dall’assunto teorico di una massima astrazione dello spazio, bianco e neutro, per non  interferire con le opere esposte, le assolute protagoniste. Abbiamo fatto il possibile per allineare l’esistenza di un White Cube, in modo coerente all’interno del complesso.

La varietà spaziale, idea-guida di tutto il progetto di Fondazione”, continua l’architetto Pompignoli, “si è generata interpolando tre parametri di riferimento compositivo. Primo: la forma in pianta, trapezoidale e irregolare al piano terra (ad assecondare il limite di proprietà inclinato sul lato nord) che, andando a sbalzo sulla strada pubblica in due momenti, al quarto e al quinto livello e all’ottavo e al nono, diventa rettangolare.

Secondo: l’altezza dei livelli che crescono di circa 50 cm, dal basso verso l’alto, fino agli 8.50 metri della galleria all’ultimo piano. Infine, le bucature dell’edificio, figlie del concept strutturale, sempre rigorosamente alternate sui lati est (dove creano delle logge) e nord-ovest (dove sono vetrate a filo)”.

Superato un portico delimitato da una fence trasparente in barre cilindriche di policarbonato, un portone scorrevole in alluminio anodizzato traghetta l’ospite in uno spazio-boulevard che si rapporta in modo flessibile alla torre, ai percorsi interni del complesso, all’ex magazzino e da lì ad altri episodi. Lo spazio che corrisponde al foyer è stato foderato in specchio per dilatare il gioco delle riflessioni urbane al suo interno.

L’ascensore principale (un volume di 5 metri x3 x3 che funge anche da montacarichi delle opere), è stato invece rivestito all’esterno in alluminio anodizzato, mentre all’interno è in parte vetrato e in parte in onice rosa retroilluminato. Elettrificato con dei pattini laterali e ancorato all’esterno della parete sul lato sud risulta a essa complanare.

Sul piano percettivo, ogni volta che l’ascensore si apre ai piani, i visitatori trovano nove condizioni spaziali differenti, che declinano altrettante esperienze. Nello sviluppo della torre, le gallerie occupano circa 2.000 mq dei 4.000 complessivi. Ciascuna ha due accessi, uno principale di fronte all’ascensore panoramico e l’altro che fa riferimento alle scale di esodo antincendio.

La torre si ispira al modello del White Cube che muove dall’assunto teorico di una massima astrazione dello spazio, bianco e neutro, per non interferire con le opere esposte, le assolute protagoniste"

Il copione prevede che, quando si esce dall’ascensore, si incontri un vestibolo, superato il quale si è già all’interno dello spazio espositivo, dove costanti restano il nobile travertino bianco sui pavimenti, le pareti e i soffitti in cemento a vista, i serramenti in alluminio anodizzato, i muri ciechi strutturali resi efficienti sul piano energetico con un layer isolante e una controparete in pannelli di scaglie di legno orientate OSB e il sistema espositivo a calamite che ne preserva l’integrità.

Poi, lo schema cambia a seconda del livello. Il primo, con vetrata verso est e lato cieco a nord, ospita in testa, il guardaroba e, al centro, i bagni-unisex isolati in un volume autonomo proprio per rendere le viste, la luce e la circolazione ininterrotti un beneficio per tutti, mentre la porzione sotto-finestra è stata attrezzata con una serie di lavabi in acciaio su disegno.

Altra particolarità: impianti e luci, per restituire al meglio la pulizia del cemento, sono stati predisposti al momento del getto, con una sofisticatezza che giunge al dettaglio dei giunti a soffitto che incontrano a filo quelli parietali. “Non dimentichiamo che è stato necessario circa un anno di campionature”, spiega Pompignoli, “per la messa a punto del cassero che, una volta disarmato, garantisse il miglior risultato a livello di finitura del materiale, alla vista e al tatto”.

La galleria del secondo livello ha ancora planimetria trapezoidale, ma la vetrata è orientata a nord sulla città e sullo scalo ferroviario. Quello successivo, di contro, ha la vetrata a est. E così via, in una sorta di costruzione-lego alternata nell’orientamento da un livello altro, per creare un pattern aperto/chiuso ritmato sulle facciate, esposte alla luce sul lato nord, est o ovest.

Superati il quarto e il quinto piano, dove la pianta diventa rettangolare e in aggetto sulla strada, si giunge al sesto, dedicato al ristorante, ancora top secret mentre scriviamo. Qui la pianta torna a essere trapezoidale e la vetrata chiude l’angolo, mentre lo spazio si apre alla terrazza concepita come una porzione della cittadella sottostante riportata in altezza, con i suoi pavimenti in pavè di porfido e griglie di ferro. Il livello sette è quasi del tutto per la cucina tecnica su disegno del ristorante, dotata di monta-vivande e terrazzo di servizio.

Privo di sorprese spaziali, questo piano regala l’inattesa nota rossa di un pavimento in legno a doghe venate e ospita i servizi per il pubblico. L’ottavo e il nono piano sono ancora gallerie espositive. L’ultima, al nono, priva di finestre, gode di una generosa luce zenitale, proveniente dal tetto vetrato schermato e contraddistinto da una porzione cieca al centro, che diventa il pavimento calpestabile del tetto-terrazza superiore. Lo spazio outdoor con rooftop bar è stato concepito come un privilegiato belvedere sulla città fino all’arco alpino.

Qui lo sbarco diretto dell’ascensore principale è stato incastonato in un portale nero, mentre tutta l’area open air è segnata da un mobile-contenitore con andamento curvilineo finito a specchio. “La scelta dello specchio, che accomuna anche le porte”, precisa Pompignoli, “è risultata funzionale a eliminare ogni barriera tra l’effetto di riflessione del pavimento optical e la città, perché produce un salto di percezione che comprime la profondità di campo sullo stesso piano”.

Nell’articolato film proposto dalla torre, il ruolo-principe spetta comunque, senza dubbio, alle scale. Queste conservano la stessa larghezza per tutta l’altezza dell’edificio, ma incontrano interpiani differenti; pertanto rampe e pianerottoli di dimensioni ogni volta differenti. Un fatto che arricchisce la percezione spaziale, sottolineato dalla pavimentazione alternata in cemento grigio e bianco. Nonché dalla presenza di vetrate, serbatoi di luce naturale, che guardano all’interno dell’edificio; mentre la luce artificiale si effonde dai lati corti e sotto i corrimano.

Alla fine, tra salite e discese e intersezioni, il corpo delle scale, come fosse una pellicola espressionista, è anche quello che meglio spiega la complessità progettuale della scatola-torre. In una sorta di ambiguità intrinseca, ne rende più apprezzabile la semplicità dall’esterno.

Progetto di OMA Rem Koolhaas con Chris van Duijn - project leader Federico Pompignoli - foto di Mattia Aquila