Ad Austin, nel Texas, Snøhetta riprogetta gli spazi aperti precedentemente frammentari e anonimi del Blanton Museum of Art, regalando alla città un luogo pubblico riconoscibile

Se il Texas evoca spesso l’immagine di rodei, pozzi petroliferi e spedizioni spaziali, la capitale Austin è un po’ fuori dagli stereotipi che dipingono questo Stato: una città un tempo definita “hippie”, eclettica e frizzante per la sua tradizione di musica dal vivo e arti di strada dove, tra svettanti grattacieli e congestionate freeways, resistono luoghi di socialità assimilabili al concetto europeo di “piazza”.

Una città che negli ultimi anni sta vivendo importanti trasformazioni, configurandosi da un lato come polo tecnologico che attrae importanti colossi dalla Silicon Valley, dall’altro come rinomato hub culturale.

A dimostrarlo è il Blanton Museum of Art, iconica ‘porta d’ingresso’ al Campus Universitario di Austin e trait d’union tra l’anima ‘civica’ della città a sud, con il Texas State Capitol, e quella storico-culturale a nord, con l’Università.

Custode di oltre 21.000 opere moderne e contemporanee (dagli Stati Uniti e dall’America Latina), rinascimentali e barocche (dall’Europa), il Blanton è tra i più grandi musei universitari degli USA e rappresenta un ambiente dinamico ideale per il dibattito sui temi prioritari della contemporaneità, dall’arte come forma di dialogo al cambiamento climatico, alle disuguaglianze sociali.

Cuore (e mente strategica) della struttura museale è la sua direttrice, Simone Wicha, che da tredici anni si occupa di consolidare il ruolo da protagonista del Blanton sulla scena culturale, anche attraverso la collaborazione con artisti di fama internazionale che qui hanno lasciato una traccia tangibile: come Ellsworth Kelly, che ha regalato all’Università la cappella laica Austin.

L’edificio, che rappresenta il culmine dell’opera dell’artista, si staglia nitidamente a nord del Campus con il suo volume cruciforme immacolato e punteggiato da vetrate colorate.

Il Blanton è un luogo ricco di fermento che ha però conosciuto varie vicissitudini.

Dopo il concorso per la realizzazione di nuove infrastrutture museali bandito oltre vent’anni fa, il cui progetto vincitore (di Herzog & de Meuron, ritenuto troppo poco “conservativo”) fu sostituito nel 2006 da quello più tradizionale dello studio Kallmann McKinnell & Wood, il complesso ha acquisito la configurazione attuale: due edifici – uno ad uso amministrativo, l’altro espositivo – con coperture in cotto, loggiati e paraste dal sapore neorinascimentale, attestati su una corte centrale.

Nel corso del tempo gli spazi aperti hanno perduto carattere e unitarietà, trasformandosi in aree di passaggio anonime e frammentarie dove risultava difficile orientarsi, le zone di sosta erano poco accoglienti e gli spazi per le attività all’aperto residuali.

Il progetto di Snøhetta, recentemente completato, è intervenuto per ricucire e valorizzare gli spazi aperti, allo scopo da un lato di superare le disfunzionalità e dall’altro di potenziare il carattere riconoscibile di luogo pubblico inclusivo e aggregante dell’Università alla scala urbana.

Un disegno di percorsi chiaramente identificabili, articolati fra giardini e piazze per un’estensione di quasi 20.000 metri quadri, invita a entrare e a esplorare le opere d’arte e il paesaggio.

La biglietteria e l’area informazioni sono state ricollocate lontano dalla galleria, in un fabbricato annesso facilmente visibile.

Un giallo vivace dipinge le arcate di accesso agli edifici, gettando una pennellata gioiosa sulle auliche strutture e richiamando i colori dominanti del Texas centrale e meridionale.

Cuore del progetto è la corte prospiciente Martin Luther King Jr. Boulevard, riconfigurata come “agorà” nel senso più classico (e alto) del termine: uno spazio di contaminazione tra vita e cultura, socialità e nutrimento intellettuale, svago e riflessione, che funge sia da hall a cielo aperto e punto di distribuzione, sia da snodo urbano tra Congress Avenue (il viale più importante della città sulla direzione nord-sud) e la spina dorsale pedonale principale del Campus.

A dare il benvenuto a studenti e visitatori è una serie di dodici gigantesche sculture in fibra di vetro (alte circa 12 metri), di cui la forma sinuosa e i toni neutri alleggeriscono l’impatto volumetrico: gli esili fusti verticali si espandono in sommità a formare esuberanti chiome d’albero o corolle di fiore stilizzate del diametro di 9 metri, che offrono prezioso ombreggiamento dall’abbacinante sole texano e, grazie a un efficace sistema di raccolta dell’acqua piovana, favoriscono l’irrigazione passiva nel sottosuolo circostante.

L’accurato studio del verde ha consentito, oltre alla conservazione (dove possibile) della vegetazione esistente, la piantumazione di oltre 25.000 nuove essenze prevalentemente autoctone, resistenti al clima locale e con minime esigenze manutentive, favorendo un ecosistema ricco e vibrante in mezzo alla metropoli.

Uno spazio “di vita e di connessione, confortevole e funzionale” ma anche “gioioso”, come lo descrive Simone Wicha, fermamente convinta del potere della cultura di impattare sulla società e dell’importanza di “veicolare gioia e bellezza nella vita quotidiana”, portando l’arte al di fuori delle teche.

Obiettivo, questo, condiviso anche da Craig Dykers, co-fondatore di Snøhetta che, memore dei suoi anni da studente presso l’Università di Austin, con fervore ‘politico’ afferma che il progetto ha inteso “traslare l’identità dell’Università da palazzo di potere a giardino di conoscenza e creatività” e che “il design di Snøhetta espande la collezione d’arte di livello mondiale del museo al di fuori delle gallerie espositive e crea a Austin un luogo pubblico e per le arti ad alta visibilità”.

Ed è infatti l’efficace sinergia tra staff museale e architetti che ha consentito di fare di questo luogo una nuova polarità urbana, dove i confini tra spazi istituzionali e luoghi informali sono disinvoltamente sfumati e dove le installazioni artistiche fanno da quinta alla vita quotidiana.

Tra queste, il murale site-specific Verde, que te quiero verde dell’artista cubano-americana Carmen Herrera, ispirato a una poesia di Federico García Lorca e collocato nella loggia del Michener Gallery Building per tutta la lunghezza dell’edificio: le tonalità verdi dell’opera giocano con i riflessi della vegetazione della corte dove, tra un picnic sul prato, una sessione di yoga o un momento di relax all’ombra su una sedia a dondolo, scoprire il piacere di un’arte diffusa e accessibile. Perché “l’arte”, come diceva Jackson Pollock, “è ovunque si abbia il coraggio di guardare”.