Torna in libreria Design per il mondo reale di Victor Papanek. Intervista al curatore Emanuele Quinz

Ci sono eventi, nella storia del design (e nella Storia), che funzionano come una resa dei conti: separano il prima dal poi, il grano dal loglio, la luce dal buio.

Cinquantadue anni dopo l’uscita, Design per il mondo reale di Victor Papanek è ancora tutto questo: lo specchio che dal 1971 riflette la coscienza di milioni di progettisti. Disillusione e speranza, invettiva e orazione civile, Design per il mondo reale è un viaggio insuperato nelle potenzialità del design come strumento per migliorare il mondo o affossarlo definitivamente.

Il saggio torna finalmente in libreria per i tipi di Quodlibet in un’edizione a cura di Alison J. Clarke, antropologa e storica del design, e di Emanuele Quinz, curatore e storico dell’arte, autore del libro Compasso d’Oro 2022 Contro l’oggetto (Quodlibet).

Quinz, la scelta di rieditare il saggio di Papanek è doppiamente politica: per il valore di quel testo, e anche perché con Clarke avete puntato sulla prima edizione del saggio anziché, come ci si sarebbe aspettati, sulla seconda del 1984, in cui Papanek sfumava alcune sue prese di posizione.

“Proprio così. Innanzitutto trovavamo incredibile che un testo considerato giustamente alla base delle opzioni etiche ed ecologiste del design contemporaneo, citato da tutti e letto da pochissimi, non fosse più disponibile.

La scelta di ripescare l’edizione del 1971, e non quella più recente, dipende dal fatto che con Clarke volevamo ricostruire la stessa radicalità del Papanek originario.

Ci interessava riscoprire l’impatto e lo shock che il libro provocò alla sua prima uscita, senza quei ripensamenti che, quindici anni dopo, lo portarono, per esempio, a diluire certi messaggi o a smorzare in qualche passo la sua caratteristica vis polemica”.

Mezzo secolo di vuoto editoriale ha contribuito tra l’altro ad accreditare Papanek come un ricercatore, quando invece la sua identità era tutt’altra.

“Sì. Papanek era un progettista e non certo un accademico. La sua era una scrittura vibrante, quasi parlata, mossa dall’urgenza e dall’imperativo dell’impegno.

Creava neologismi, non citava le fonti, che infatti è quasi impossibile ricostruire. Era impreciso e ogni tanto commetteva errori marchiani. Per esempio, a un certo punto nella sua invettiva contro De Stijl e il buon gusto appare un tale Wijdveldt autore in Olanda di ‘sedie, tavoli e sgabelli’ che, come spieghiamo in una nota, non può che essere Rietveld…”.

“Ogni uomo è designer. Quasi tutto quello che facciamo è design”: questo incipit è diventato il principio attivo assimilato dai principali teorici del design, oggi.

“È vero, ma non dimentichiamoci che in un altro incipit, quello alla prefazione del saggio, Papanek accusa il design industriale di essere ‘fra tutte le professioni, una delle più dannose’ e di ‘approntare le sgargianti idiozie propagandate dagli esperti pubblicitari’.

Questa sua analisi a due facce - il design sugli altari e, allo stesso tempo, nella polvere - avviene in un momento radicale per le teorie del progetto.

Sono gli anni delle denunce militanti di Ralph Nader, Rachel Carson e Vance Packard, dell’attacco alla Società dei consumi di Baudrillard.

E, ancora, gli anni in cui la critica del design cambia passo e arriva a individuare nel design un fattore di crisi: per Papanek, il design industriale come lo si conosceva allora doveva finire per abbracciare una prospettiva olistica.

Senza Papanek, non si parlerebbe oggi di svolta ontologica del design.

La forza di quel pensiero sta nella coscienza critica che in qualche modo chiede di sviluppare: se tutti siamo designer, non è solo il professionista a dover avere consapevolezza delle conseguenze politiche, sociali ed ecologiche del suo operato, ma chiunque.

Quella di Papanek vuole essere una lezione morale”.

Che cosa penserebbe oggi Papanek di maker, fab-lab e di tutte quelle comunità a cui il design spesso guarda con diffidenza se non snobismo?

“Gli piacerebbero. Papanek, nella sua analisi, va alla scoperta del mondo e delle culture extraoccidentali, divulgando l’idea che il design è un fattore di trasformazione della società, e in quanto tale non può che essere locale.

Maker e fab-lab lavorano ispirati da un’idea di processo e condivisione che lui apprezzerebbe.

Del resto, Papanek era legato alla controcultura, il suo design è spesso una forma di do-it-yourself, cercando soluzioni ai problemi in chiave interdisciplinare. Il design per Papanek è sempre una forma di negoziato”.

Perché ha avuto poca fortuna in Italia?

“Al momento dell’uscita, una celebre recensione di Gui Bonsiepe su Casabella bollò il saggio come un debole gesto retorico. Eppure vi erano delle vicinanze con certe ricerche dell’epoca, con l’impegno politico di un Enzo Mari per esempio e un certo approccio antropologico difeso da Superstudio.

Ma piano piano il messaggio è passato, e oggi è considerato come un pioniere”.

Chi sono oggi gli eredi di Papanek?

“Chiunque promuova e predichi il concetto di care nel design e si faccia carico delle istanze ambientali.

Penso ai progetti recensiti da Paola Antonelli ed Alice Rawsthorn nel podcast e libro Design Emergency, per esempio. O alla mostra - era il 2007 - del Cooper Hewitt Museum di New York, Design for the other 90%: il design oggi si concentra sulla minoranza ricca di un’ulteriore minoranza geografica, l’Occidente, quando invece dovrebbe preoccuparsi del resto del mondo, di chi ha veramente bisogno.

Di sicuro sono eredi di Papanek il design riparativo, la cultura del riuso e dell’upcycling”.

La rivoluzione di Papanek è stata quella di spostare l’asse del design, dal consumo al bisogno.

Quanto ha inciso sul pensiero di Papanek il fatto di essere stato un giovane immigrato austriaco fuggito dal nazismo?

“Senz’altro ha inciso: quando arrivi da straniero in un Paese, definisci il tuo pensiero in un confronto continuo con le tue radici e la cultura del posto.

Forse, solo un immigrato come lui poteva scrivere Design for the Real World. Dal suo stato di fragilità, vedeva cose che altri non potevano cogliere”.

Papanek è morto prima di vedere il primo iPhone e gli smartphone: che cosa ne avrebbe pensato?

“Non era un luddista, non rifiutava la tecnologia, né era un fautore di quella decrescita che è diventata un’ossessione recente di certe correnti del design.

Nella sua ideale cassetta degli attrezzi dovevano finire tutti gli strumenti possibili che il tempo metteva a disposizione. Non aveva un approccio moralistico.

Come già fa nel suo libro, avrebbe condannato l’obsolescenza programmata dei device, mostrandoci che il design non ha ancora perso i vizi di allora”.

 

Foto di copertina: Victor J. Papanek mentre gira il programma televisivo Design Dimensions a Buffalo, NY, per WNED-TV Channel 17 (1961-1963). Fonte: University of Applied Arts Vienna, Victor J. Papanek Foundation 
Documentario messo in mostra al Vitra Design Museum in “Victor Papanek: The Politics of Design”, 2018