Marco Sammicheli racconta il nuovo allestimento del Museo del Design Italiano alla Triennale: "Voglio garantire un'educazione alla qualità ergonomica, estetica, culturale"

Cent'anni di Triennale e la mostra del Museo del Design del 2023 si dà come obiettivo il racconto del progetto dagli anni Venti a oggi, tentando un continuo dialogo fra memoria e contemporaneità.

Un compito ambizioso che il direttore del Museo Marco Sammicheli risolve con passione divulgativa, da grande amante del design e della sua storia. Gli abbiamo chiesto come è riuscito a trovare un fil rouge per costruire una narrazione comprensibile a tutti.

Sammicheli ha una missione chiara: dare al pubblico la possibilità di capire meglio il design.

Dagli anni Venti a oggi, cent'anni di design in una mostra. Quali criteri ha seguito per selezionare le opere esposte ?

Marco Sammicheli: “Celebrare l'anniversario della Triennale significa immaginare un museo che copre una scansione temporale dalle origini al presente.

La spina dorsale è la cultura del progetto degli interni, vera vena generativa del design italiano.

In tempi protoindustriali il design è in mano agli architetti, che progettano pezzi unici, soluzioni sartoriali, ambienti immaginati in ogni dettaglio. Una tipicità della nostra cultura che può rientrare in quell’amore per il bello che ci contraddistingue.

Il design inizia quando gli architetti consegnano il progetto alla serialità. La bellezza diventa collettiva".

Il percorso inizia attraversando un portale su cui campeggia un manifesto chiaramente antifascista di Albe e Lica Steiner, che si apre su una piazza italiana che accoglie progetti con un dna legato all’architettura dei trasporti e dell’edilizia.

Seguono sei ambienti che sviluppano un percorso storico, dagli anni Venti agli anni Sessanta.

Ho deciso di ricostruire un garage che ospita naturalmente una Lambretta, una Vespa e una Cinquecento. Un bagno di Pozzi Ginori disegnato da Antonia Campi. Tre interni provenienti da un lavoro di ricerca archivistica: Casa Minerbi di Piero Bottoni, Casa Manusardi di Figini e Pollini, Casa Albonico di Carlo Mollino. Lo studio del grafico Walter Ballmer. Un ufficio di Tomas Maldonado, Ettore Sottsass e Mario Tchou ai tempi di Olivetti.

Emerge la meraviglia di un design sistemico, figlio dell’amore per il dettaglio e non forzatamente della passione per gli oggetti.

È chiaro, ed è esattamente quello che voglio sottolineare nella mostra, che il design è nel quotidiano, nella vita di tutti i giorni. E ci riguarda tutti.

Si arriva al contemporaneo passando per un corridoio in cui abbiamo deciso di proporre delle mappe fatte per articoli e ricerche dai maestri del italiano per sintetizzare come il progetto stava cambiando dagli anni Settanta in poi.

Il percorso sfocia su un grande ziggurat che inscena le avanguardie degli anni Ottanta, con i primi progetti di Piero Lissoni, Ferruccio Laviani, Ingo Maurer.

C’è tutta la avanzata tecnologica degli anni Novanta, che configura una costellazione di progettisti capace di diventare il vero motore dell’innovazione.

Infine c’è la nuova Design Platform, dedicata al design contemporaneo. Un’area espositiva in cui organizzeremo mostre monografiche e tematiche per approfondire alcuni aspetti specifici del progetto. Partiamo da Text, che racconta il comune atteggiamento di stilisti e designer di fronte alla progettazione del testo, delle interfacce e dei tessuti”.

Da quale brief parte il layout espositivo curato da Paolo Giacomazzi?

Marco Sammicheli: “A Paolo Giacomazzi è stato chiesto di intrecciare tutti gli oggetti presenti in un racconto che scuote i paradigmi definiti dell’abitare. L’obiettivo è avvicinare un’idea di design quotidiano, che diventa presente anche a chi non è un professionista.

La cura nei testi si sgancia dal gergo tecnico. Che si parli di Alessandro Mendini o della Coccoina, l’apparato narrativo è estremamente presente.

C’è la possibilità di interagire con una serie di opere che aiutano il visitatore a capire il significato della cultura materiale nel nostro paese.

L’ossessione per forme, volumi e colori di oggetti che possono sembrare prosaici ma esprimono un attaccamento, un potere funzionale e una necessità che si trasfigura nell’arte. E una naturale inclinazione a tornare su temi universali, sempre attuali.

La prossimità casa/ufficio, la memoria, la nostalgia dell’immigrato per il paese natale, come nella scultura di Harry Bertoia che produce il rumore del vento, il pianto del migrante”.

Come si racconta la memoria?

Marco Sammicheli: “Abbiamo con la tradizione un rapporto che oscilla fra protezione e distruzione; è un fardello e un grande amore.

La memoria si racconta nel momento in cui riesci a riconoscere che un ricordo personale è patrimonio collettivo. L’intuizione del passaggio dal personale all’universale.

Ciò che è esposto nel museo è nato in uno studio di design in cui qualcuno si è chiesto: come assecondo quel comportamento?

Quindi l’esperienza del singolo diventa l'esperienza di tutti. Eppure il moderno, la meraviglia del cambiamento è la normalità di Milano, un fiume carsico che ha inciso la sua cultura profondamente”.

Qual è il suo il suo obiettivo concreto come art director del Museo del Design della Triennale?

Marco Sammicheli: “Trasferire conoscenza e rinunciare a qualcosa per sintetizzare un messaggio che il pubblico possa comprendere.

Per quel che mi riguarda si tratta di capire che ciò che esiste nelle pagine di un libro non può nella sua integrità esistere in un museo. Lo schizzo, lo stampo, il prototipo, l'oggetto finito, il packaging: questa catena del valore a mio avviso crea un grande ingombro cognitivo a un pubblico che non ha tutti gli strumenti.

Io rinuncio a alcune di queste tappe e gli dico: porta con te alcuni paragrafi di questa storia. Voglio garantire al visitatore un'educazione alla qualità ergonomica, estetica, culturale. Una qualità che si riverbera in tutta una serie di dettagli che si possono imparare a riconoscere visitando il Museo”.

Cover photo: Max Huber, Albe Steiner. 8 Triennale di Milano 1947, Manifesto ufficiale © Triennale Milano