Alfonso Morone ha raccolto in un libro 248 tombini sparsi in tutta Italia: ne è risultato che hanno da dire molto di più di quanto crediamo

In un volume che racconta un mondo inaspettato quanto comune Alfonso Morone, docente di design presso l’Università di Napoli, con il contributo grafico di Marco Sorrentino e fotografico di Enzo Papa ha ricostruito attraverso un accurato lavoro di 4 anni la cartografia dei tombini che puntellano lo Stivale.

‘Tombini d’Italia’, edito da LetteraVentidue, è il titolo del libro che raccoglie 248 di questi strumenti esempio del design più ingenuo e funzionale che ci sia: furono infatti ideati durante la Prima Rivoluzione Industriale con un’unica (tuttora attuale) prerogativa, ovvero che siano utili all’organizzazione urbana e che permettano alle persone di non scivolare (ecco il perché dei rilievi).

Per antonomasia appendici democratiche di tutte le strade del mondo, strumenti urbani abituati a essere taciti osservatori i tombini sono stati testimoni di epoche e fasi storiche: è curioso notare come non ci si accorga (se non da bambini quando li si usava come 'basi' di gioco) della loro esistenza grafica.

A chi e a cosa serve un libro sui tombini?

Non serve, ma potrebbe essere intrigante per gli appassionati di design e in particolare di quel design non autoriale ma delle origini: per chi ama la cultura e il progetto industriale e le interazioni che il design applica da sempre ai grandi sistemi di innovazione e ai piccoli oggetti. Sono dell’idea che si rivolga a chi approfondisce per passione e per curiosità personale.

Esistono i progettisti dei tombini?

Da che è stato introdotto all’uso urbano il tombino si è limitato a essere uno strumento funzionale. Esiste la customizzazione, ma il tentativo di trasformarlo in uno strumento espressivo comprometterebbe la sua natura democratica, simbolo di uguaglianza popolare.

Lo stesso tombino si può osservare in diverse città e paesi d’Italia, senza differenze date dalla contestualizzazione o dall’imponenza del territorio. È un prodotto industriale della prima era, che si afferma identico nonostante le diversità che lo circondano.

Perchè lo si può definire un oggetto di design?

Premetto che ancora oggi non so ben definire, nonostante la mia esperienza e posizione accademica, cosa sia un oggetto di design. Per me lo è tutto ciò che viene prodotto industrialmente e quindi anche i tombini.

C’è anche un motivo affettivo per cui mi sento di definirlo così ed è lo stesso che mi ha spinto a intraprendere questo progetto: Roberto Mango, uno dei fondatori del design a Napoli, quando era negli USA scrisse un paio di articoli sulla rivista Industrial Design sui tombini, usandoli come pretesto narrativo per raccontare la città e questo mi rimase impresso: li definiva 'roses in the street’ (Rosoni della strada) ovvero un catalogo numismatico della storia della tecnologia.

Perché nel libro lo definisce ‘senza scadenza’?

Si tratta dell’unico prodotto industriale che continua a essere in uso – alcuni addirittura dalla Prima Rivoluzione Industriale – così com’è. Lo si deve sostituire solo in caso di rivoluzioni della zona, furti o rimaneggiamenti.

E poi è effettivamente un archetipo di sostenibilità perché realizzato con materia prima – la ghisa – all’infinito. In più è un oggetto che potenzialmente non è soggetto a usure tecnologica.

L’unica causa potrebbe essere la loro perdita di aderenza e quindi conseguenti scivolate motivo per cui si potrebbe necessitare di una modifica.

Alcuni però ci raccontano la storia del Paese. Un esempio?

In Italia uno dei segni distintivi di longevità del tombino è il fascio: mentre subito dopo la liberazione questo simbolo è stato distrutto ed eliminato da qualsiasi aspetto, i tombini sono rimasti intatti. A Milano ci sono decine di fasci in diverse varianti – anche le più futuriste – che, spiace dirlo, ma in alcuni casi sono graficamente affascinanti.

Erano parte dell’atto di paternità e di innovazione tecnologica da riferire al regime, in un certo senso faceva parte della loro 'strategia di comunicazione'.

Un’altra traccia rimasta è quella della rivoluzione tecnologica del dopoguerra: i marchi impressi delle compagnie telefoniche dei primi tempi, ora scomparse, ma anche di elettrificazione che esistevano prima di confluire oggi in un’unica. Il tombino è un vero e proprio lapidario della modernità.

Qual è il fronte innovativo per la progettazione di un tombino?

Negli anni ci sono stati dei tentativi di innovazione, alcuni andati a buon fine altri meno: quando la ghisa era diventata materiale prezioso è stata tentata la via del legno ma presentava troppi limiti di utilizzo.

Oggi si sta sperimentando la realizzazione con materiale composito che potrebbe essere un buon promettente. Ma finché la ghisa regge, dubito che vi sarà un vero competitor validato su tutti i fronti.

In questo senso Iacchetti e Ragni (che hanno curato la prefazione del libro, ndr) sono un chiaro esempio di come ci sia spazio per l’innovazione in materia: sono stati davvero bravi a introdurre una nuova forma della stessa materia originale (la ghisa sferoidale). Le particelle di ghisa in questa nuova forma si dispongono in modo intrecciato: lo spessore diminuisce e il peso di conseguenza, risultando più economica per il trasporto.

Si stanno conducendo delle ricerche: in Australia pare abbiano inventato uno strumento alternativo, un catino al di sotto della caditoia che raccolga i materiali inquinanti evitandone la caduta nel canale fognario e poi in mare. Si tratta però sempre di incrementi all’oggetto stesso che resta nella sua natura vergine e fedele a se stesso.

Una chicca

Al termine della lettura, l’elenco di tutti i tombini classificati è accompagnato dal numero civico e i riferimenti di geolocalizzazione.