I collettivi delle nuove generazioni di architetti e designer tornano a fare squadra, per arricchire con un pluralismo di visione la cultura del progetto
Mai come oggi il termine “collettività” rappresenta un’urgenza pressante, quella di uscire da un meccanismo viziato che ha visto insediarsi nel mondo del progetto una sorta di star system. Dopo anni di autopromozione e di individualismi esasperati, in cui i progettisti sono diventati il brand di se stessi, una nuova generazione di architetti, curatori e designer riporta il concetto di collettività all’interno del proprio pensiero progettuale e delle pratiche di intervento sociale. Ed è con grande ottimismo che quelli della mia generazione dovrebbero guardare a queste nuove leve che sono riuscite a trovare nell’esperienza quotidiana della collettività – e nel superamento delle numerose difficoltà che questa comporta – il loro personale manifesto, promuovendo critiche, riflessioni e interventi spesso scaturiti dall’attivazione del pensiero laterale, e valorizzando il dialogo e finanche il dissenso.

Se i famosi collettivi della storia del design e dell’architettura italiana hanno più volte portato avanti un manifesto programmatico politico di ribellione al sistema, oggi le nuove realtà che si definiscono “collettivi” lo fanno in primis con l’obiettivo di tornare a fidarsi, a condividere, a onorare il lavoro degli altri.

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Le espressioni linguistiche che per molti anni sono state maggiormente utilizzate nei profili degli studi professionali e delle società, quali “a 360 gradi” o “chiavi in mano”, lasciano il posto alla dichiarazione delle proprie capacità e al riconoscimento dei propri limiti e della necessità di fare squadra, di unire più menti, di essere un corpo unitario ma che raduna diverse competenze. [...]

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In copertina: Post Disaster Rooftop Design Collective, ph Pierfrancesco Lafratta