In pochi anni l’accessibilità alla stampa 3d è notevolmente aumentata. Perché dunque fatica a essere considerata una risorsa mainstream? Enrico Bassi di OpenDot ci ha spiegato a che punto siamo e come trarne beneficio

Quanta diffidenza aleggia ancora intorno alla stampa 3D? Si tratta di una risorsa grandiosamente considerata dai soli addetti ai lavori o c’è una possibilità che si sia fatta strada diventando (quasi) mainstream?

Bisogna in primis capire qual è il livello di conoscenza del settore, per determinare quanto la stampa 3D incarni nell’ideale nell’immaginario collettivo il futuro, il presente o addirittura il passato della progettazione. In particolare di quella progettazione orizzontale, democratica, che parte dal basso e che risponde a un’esigenza 'comune'.

Per gli esperti, i professionisti del design e del progetto, si tratta di materia assodata – forse anche superata, quantomeno soggetta a evoluzioni iper veloci – per i 'comuni mortali' (ovvero tutti coloro che apprezzano l’architettura ma non ne sono esperti) la stampa 3D è ancora un ente futuristico che piano piano, forse, sta facendo capolino.

Più vicino, sicuramente, perché oggi esistono dispositivi in grado di creare per additivazione da installare a casa, per divertimento. Ma comunque ancora di nicchia perché nonostante i progetti residenziali stampati in 3D siano ormai realtà, pensarli come la quotidianità richiede ancora del tempo e una buona dose di non diffidenza.

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Abbiamo parlato con Enrico Bassi, direttore del ‘fab lab’ e hub creativo OpenDot, per capire se e in che modo la stampa in 3D può essere ritenuta, oggi, una risorsa democratica, sostenibile ed economica.

C’è stato un momento in cui la stampa 3d è diventata popolare?

La vera rivoluzione si è avuta circa 40 anni fa: invece di scavare un blocco di materiale si iniziava a scegliere la prototipazione rapida, cioè un sistema che evita tutti i fastidi della fase di fresatura (sporco, scarti, eccessi, vibrazioni) scegliendo un metodo che andasse a deporre la materia dove utile.

Da lì in poco meno di 20 anni è cambiato tutto: sono scaduti i primi brevetti sulla stampa in 3D a filamento (quella tecnologicamente più semplice, che parte dallo scioglimento di un filo di plastica) e sono iniziate le vere sperimentazioni, non solo di prodotto ma di strumento. In Inghilterra venne nel 2005 venne realizzata la prima stampante 3D open source, la RepRap, replicabile con semplici pezzi di ferramenta e schede elettroniche prodotte in casa.

L’enorme balzo in avanti era dato dal fatto che da quel momento i progetti potevano essere condivisi, fonte di studio e di innovazione giunta da più teste. Per la stampa 3D la perdita del brevetto ha rappresentato un caso studio esemplare di rallentamento – e non protezione – all’innovazione.

Sono nate così una moltitudine di macchine a basso costo, spesso kit autocostruiti e poco perfezionati in termini tecnologico e nell’arco di pochissimi anni arrivando a oggi siamo arrivati a poter acquistare con 300-400 Euro una stampante in 3D di piccolo formato, discreta e molto resistente per produrre pezzi di circa dimensioni 20 x 20 x 20 in modo privato e casalingo.

Qual è stato l’impatto del suo avvento?

Sono due i grandi impatti osservati. Il primo è stato sui medio-piccoli creativi, ovvero gli auto produttori e piccoli designer, artigiani, startupper o aziende molto specializzate che hanno improvvisamente avuto a disposizione uno strumento per produrre pezzi in libertà. Si tratta di realtà lontane dalla fabbricazione industriale e, per cui, invece, la produzione artigianale stenta.

Con la stampa 3D possono produrre centinaia di pezzi con facilità, possono realizzare un modello funzionale e di studio, numerosi prototipi Beta per ulteriori user test, pezzi per una campagna promozionale o una prevendita, ma anche ulteriori pezzi per una limited edition, per un crowdfunding... E tutti con la stessa macchina.

Questa risorsa assicura una continuità che rende molto più semplice lo sviluppo di progetti e prodotti, uscendo dai limiti industriali quali il numero di pezzi, il costo e varie valutazioni millimetriche preventive.

La rivoluzione quindi non sta nell’avere a disposizione una macchina casalinga, ma nella disponibilità della tecnologia produttiva. Prima, o producevi o chiedevi a un’azienda di investire. Oggi esistono tecnologie di produzione aperte, modificabili, facili perché documentate bene e da community di persone che condividono le conoscenze che hanno. È questo che ha permesso di sviluppare innovazione.

Uno dei progetti più recenti è il ponte di Amsterdam, stampato 3D.

Esattamente, ecco il punto. I ragazzi che lo hanno progettato sono partiti da un’intuizione nata per caso, quasi per gioco, perché stavano sperimentando sulla produzione di una macchina per stampare in 3D costruita in autonomia.

Qualche altro esempio?

MakerBot, che è stata venduta per 600 milioni di dollari a una grande azienda di stampa in 3D è nata in un hacker space di New York. Ma anche Ultimaker, un altro grande brand del settore, è nato in un hacker space di Utrecht. La domanda da porsi è proprio: cosa succede se democratizziamo la possibilità di realizzare prodotti di qualità industriale?

L’azienda italiana WASP ha il sogno di stampare le case in 3d partendo da prototipi in terra cruda e paglia e così migliorando tantissimo la qualità di stampa in ceramica.

Ci sono poi realtà che si sono cimentate e che perseguono l’utilizzo della stampa in 3D al di fuori del settore: ne è un esempio Foodini di Barcellona che dispone di macchine pensate per i cuochi ma anche per rendere più appetitosi i cibi per chi soffre di disfagia.

È una risorsa onnipervadente. Come sempre succede nelle innovazioni tecnologiche, una attira l’altra: potendo lavorare su prodotti che non hanno limiti imposti, si è passati a voler migliorare i software.

Parlavi di due grandi impatti: il secondo qual è?

Le grandi imprese. Sono iper organizzate, dispongono di grandi budget e reparti di R&D ma molte non hanno mai sperimentato la stampa in 3D e non hanno mai fatto prototipazione. Se per caso accade che si trovano tra le mani utili per l’ambito d’intervento sviluppano cose grandiose.

È il caso di HP che ha sempre fatto stampanti 2D, poi modificando una tecnologia di stampa ha realizzato una stampante (la Multijet Fusion) che produce pezzi con caratteristiche meccaniche fantastiche e costi contenuti.

Così come Adidas, che si sta cimentando nella produzione di suole di scarpe stampate in 3D perchè siano personalizzate su come un atleta muove il piede.

Se parliamo di grandi compagnie non possiamo non pensare alle conseguenze ambientali: è una risorsa rispettosa?

Sì, soprattutto quando si parla di produzione locale: l’impatto ambientale diminuisce drasticamente perché si evitano una serie di costi e sprechi legati a passaggi come il trasporto e il magazzino. La produzione è solitamente misurata, non si eccede in pezzi di ricambio stockati per anni.

Inoltre permette di risparmiare materiale: i software alla base delle stampanti 3D sono in grado di dirmi – enorme differenza rispetto alla scultura tradizionale – dove e quanto materiale deporre. Mi consente di fare ottimizzazioni basate su simulazioni che nessun designer è in grado di fare a mente e/o a buon senso.

Secondo te oggi se ne parla abbastanza, al di fuori del settore?

Credo di sì, penso che sia ormai sdoganata; i miei studenti in università oggi sono tutti avvezzi, molti hanno addirittura in casa una stampante casalinga con cui sperimentare. Sono forse da smarcare ancora alcuni falsi miti su questo tema.

Per esempio?

Il fatto che si possano stampare solo pezzi in plastica, che le stampanti siano lente, care, che non abbiano futuro. Sono argomenti di cui si è infinitamente discusso in corsi accademici anni fa, ma che oggi sono stati smontati dall’evoluzione delle tecnologie.

Forse la questione si risolverebbe se un professionista si aggiornasse in continuazione e senza sosta, cosa possibile ma obiettivamente le evoluzioni oggi sono veramente accelerate. Trovo comunque che non sia un gioco e trovo che sia necessario rimarcare il fatto che sia utile a produrre pezzi strutturali e funzionali.

OpenDot sta realizzando qualche progetto specifico in questo senso?

Sì, diversi. Uno è un progetto di ricerca nell’applicazione in ambito medicale realizzato con macchine molto avanzate che lavorano il metallo insieme con il CMR e un’azienda rumena. Si chiama DigitBrain ed è un marchio di ricerca.

Tu a casa cosa auto-produci?

Mi diverto molto, devo ammettere. Uso tanto la stampante 3D casalinga per realizzare piccoli pezzi di uso quotidiano. Per esempio: abbiamo un sistema per raccogliere acqua piovana per le piante, in modo da usare meno acqua potabile; se mi mancano gli agganci o altro me li stampo da solo.