Viaggio nel territorio fluido e vivacissimo degli indiemagazine che, in totale controtendenza, rappresenta il grande fenomeno dell’editoria degli ultimi anni

Dove l’editoria tradizionale è in grande affanno, chiudono i giornali (o sopravvivono solo online) e le edicole, c’è una realtà che negli ultimi anni si è guadagnata l’attenzione di una nuova generazione di lettori (giovane, poliglotta e cool) e sta continuando a crescere.

È l’editoria indie, caleidoscopio di pubblicazioni cartacee indipendenti (senza ,o con pochissima, pubblicità e non legate a grandi gruppi editoriali), curatissime nella scelta di colori, font e immagini e che, tra attenzione all’estetica e contenuti innovativi, trattano in modo sorprendente di viaggi, food, arte contemporanea, sport, cinema, design, musica o fashion.

Hanno nomi come Foam Magazine, The Plant Luncheon, Mousse, Cereal, Buffalo, Cartoghaphy, Frankeinstein e formati inconsueti, dal minimal al kingsize, costano tanto (da 20 a 40 euro) ed escono solo due o tre volte l’anno.

"Personalmente preferisco chiamarla 'editoria contemporanea': ognuno di questi magazine è uno spaccato della contemporaneità, fotografa le tendenze nella loro fase iniziale", spiega Francesca Spiller, fondatrice di Reading Room, piccolo e fornitissimo spazio (conta più di 300 titoli) aperto nel 2018 in zona Corvetto (via Mincio 10) e che, una volta al mese, conduce il programma 'Periodica ossessione' su Radio raheem (radio host di Triennale di Milano).

"E poi alcune testate non sono così 'dure e pure', hanno il contributo di qualche inserzionista, ma non cambia niente: a me", continua Spiller, "che vengo dal mondo della fotografia, interessano i magazine che mettono al centro l’immagine, che portano avanti una ricerca e una sperimentazione soprattutto visiva"

"All’estero sono anni che esistono 'librerie indie' (lo storico Do you Read me? di Berlino ha aperto nel 2008), a Milano invece mancava. Così oggi Reading room, anche grazie al passaparola, è diventato il punto di riferimento per professionisti e studenti di discipline creative, dalla moda al design, che cercano spunti e ispirazione".

Ma qual è il motivo del successo di queste testate? Nostalgia per la carta?

"Assolutamente no, il successo dipende dal fatto che non sono legate all’attualità, sono superspecializzate e fanno leva sul bisogno di appartenere a una community e intercettare i trend di ogni settore" spiega la Spiller.

"Un esempio? Qui si trovano riviste da tutto il mondo, soprattutto Europa, Africa, Medio Oriente e Australia, quindi ci si può immergere anche in progetti, come per esempio nella moda africana, che sono esteticamente lontani da noi ma che offrono uno spaccato super interessante".

La sorpresa, però, è scoprire quante sono quelle italiane, con base a Milano, Torino, Verona, Roma e Napoli

"Le redazioni sono giovani, dai 25 ai 30 anni. In alcuni casi, sono nate attorno alla tesi di laurea, a volte rimangono legate all’Università. Altre invece sono vere e proprie 'redazioni diffuse': con la stampa digitale non serve avere una sede ma un network di fotografi, grafici, giornalisti sparsi per il mondo.

E anche se l’editoria indie non muove grandi tirature (si viaggia sulle 5000 copie a numero), le riviste vendono e, attraverso i loro lettori, riescono ad affermare uno stile, tanto che attorno alla testata possono nascere studi creativi che usano la rivista per raccontare una certa estetica e poi offrono alle aziende consulenze e collaborazioni".

Oltre alla versione cartacea, infine, ognuna di queste riviste ha la sua versione online, spesso solo su Instagram, coerente con l’estetica della testata e rigorosamente in lingua inglese, quindi con un bacino di lettori potenzialmente globale.

"Mettere insieme contenuti e materiali per questo tipo di progetto, curatissimo perfino nella scelta della carta, richiede davvero molto tempo. Ma, non avendo fretta di uscire ogni settimana, ce lo si può permettere. Ecco perché i giornali indie sfuggono alla logica dell''usa e getta' e diventano anche preziosi oggetti da collezione".