La storia e le ispirazioni per abbracciare il selvatico anche in città: dalle sperimentazioni pratiche alle parole dei paesaggisti Nigel Dunnet, Antonio Perazzi e Marco Bay

L’abbiamo visto durante il lockdown: corsi d’acqua che tornano limpidi, prati non falciati dove fioriscono fiori selvatici, cerbiatti e cinghiali che passeggiano in città. Dove l’uomo allenta il controllo, la natura riprende il suo spazio.

Cos’è il rewilding?

Con il riscaldamento globale che incombe è sempre più urgente creare strategie di cura e rispetto per il pianeta. Una di queste è il rewilding, processo in cui ampi ecosistemi vengono restaurati reintroducendo grandi erbivori e carnivori e rimuovendo le tracce antropiche fino a quando la natura non raggiunge il punto in cui riesce a governarsi da sola.

E se vi dicessero che per ripristinare un corso d’acqua occorre introdurre i lupi? Come essere umani ci viene naturale pensare a costruire dighe e meccanizzare pozzi. Eppure, uno dei casi simbolo del rewilding è proprio quello della reintroduzione dei lupi nel parco di Yellowstone le interconnessioni e relazioni a cascata sull’ecosistema sono chiarissime nel popolare documentario Come i lupi cambiano i fiumi.

Questa esperienza porta con sè una consapevolezza di fondo: occorre ripensare una nuova relazione tra uomo e natura selvatica.

In Italia: Rewilding Apennines

Secondo l’Inventario nazionale forestale e dei serbatoi di carbonio, in Italia la superficie boschiva - aumentata in 10 anni di circa 587.000 ettari  - occuperebbe il 36,7 % del territorio, di cui oltre 3,5 milioni di ettari di superficie forestale rientra in aree protette.

Un esempio italiano di ritorno al selvatico è Rewilding Apennines che, forte anche degli studi e scambi all’interno del network Rewilding Europe, sta sperimentando un piano di tutela degli orsi bruni marsicani in via di estinzione e di creazione di corridoi per la fauna selvatica che colleghino i principali parchi nazionali dell’Appennino Centrale.

Gli impatti finora registrati guardano molto attentamente alla relazione tra le comunità locali e il mondo animale, promuovendo anche esperienze di trekking e wildlife watching in cerca di nuovi modelli di rispetto della natura.

E nelle città?

Se strutturare dei modelli di re-inselvatichimento delle aree forestali rimane complesso, si riscontra ancora la tendenza a relegare questi progetti in luoghi fortemente disconnessi dalle aree urbane.

Certo non proveremo a inserire lupi o orsi nelle città ma occorre chiedersi se delle città più pronte ad accogliere e apprezzare una natura selvatica non siano un passo importante non solo per rendere le città più vivibili e apportare all’uomo benefici quantificabili ma anche per farci sentire meno padroni del mondo e più in sinergia con l’ambiente.

Sono ormai diversi gli esperimenti in cui porzioni di spazio urbano sono dedicate al selvatico: a Londra sono iniziati i lavori per la Heritage Forest, curata da SUGi secondo il metodo Miyawaki tra i quartieri di Chealsea e Kensington.

A Roma abbiamo l’esempio di come la natura abbia ripreso possesso dell’ex area industriale SNIA rendendola ora il parco cittadino del Lago Bullicante apprezzato e utilizzato dalla comunità.

A Milano si osserva con estrema curiosità alla natura selvatica degli Scali Ferroviari lasciati incolti.

A Parigi il paesaggista Michel Desvigne 30 anni fa disegnava l’oggi rigoglioso bosco di 100 betulle per il complesso di case popolari di rue de Meaux progettato da Renzo Piano.

Nigel Dunnet: Le città hanno bisogno del rewilding

"La città è un ambiente molto innaturale per gli umani!", dice il paesaggista Nigel Dunnet, fortemente legato al manifesto del paesaggista Gilles Clément e autore dell’Olympic Garden di Londra e del recentissimo giardino del Barbican Center. "Ci siamo evoluti in un ambiente totalmente diverso e tutti i nostri istinti e comportamenti sono adattamenti a quell'ambiente naturale".

Secondo Dunnet creare 'spazi verdi' o 'spazi aperti' non basta: "perché spesso sono abbastanza sterili, privi del contenuto naturale. Dobbiamo invece puntare alla diversità e alla complessità. Questi aspetti non creano solo un maggiore interesse visivo e soddisfazione per le persone.

Ma i sistemi complessi e diversificati hanno anche maggiori proprietà ecologiche e funzionano meglio in termini di supporto alla biodiversità, gestione dell'acqua piovana, raffreddamento delle città. Dobbiamo creare luoghi con il potere di comunicare con forza alle persone, raggiungendo il profondo, attirando le nostre connessioni innate con il mondo naturale".

Marco Bay: in città serve il contrario del costruire

"In città posso permettermi paesaggi alternativi, pur tenendo i piedi per terra", dice il paesaggista Marco Bay, autore di numerosi (e celebratissimi) spazi verdi urbani e non. "Considerando clima, terreno, smog e ambiente, è possibile creare mondi diversi dove la vegetazione ti porti lontano, osservare la variabilità, l’effetto sorpresa della biodiversità e dove dare nuova identità e riconoscibilità ai luoghi".

In città, secondo Bay, occorre fare il contrario del costruire: "siamo abituati a cancellare la terra vegetale e generosa per cementificare, potrebbe invece essere un discorso educativo impostare il progetto partendo da dove sono le piante invece di abbatterle e ripiantarle dopo aver finito gli edifici.

Io sogno delle foreste giardino, con un’ampia densità di alberi che rendono la foresta prioritaria e dove l’approccio al giardino serve a renderla accessibile e ospitale: un luogo creato dall’uomo ma dove la natura è libera e in relazione con le mani gentili dei giardinieri abitanti".

Antonio Perazzi: abbiamo bisogno di luoghi dove abbandonare il controllo

Secondo il giardiniere e paesaggista Antonio Perazzi, uno dei temi del futuro è chiedersi se c’è una cultura della natura urbana o se una cultura urbana della natura. Sul selvatico, Perazzi fonda il suo manifesto - come si legge anche nel suo nuovo libro I giardini invisibili - un manifesto botanico edito da UTET. E, fedele a esso, sta portando avanti una sperimentazione sulla botanica temporanea negli spazi rigenerati di Manifattura Tabacchi a Firenze.

"Dobbiamo coltivare un’intelligenza relazionale ed empatica che si crea quando c’è un dialogo agile con la natura, un dialogo che osserva il selvatico in cui rientra l’autoctono, l’esotico e non ha paura dell’invasivo", dice.

"Abbiamo imparato che i luoghi dove la natura si esprime liberamente sono fondamentali eppure spesso si disegnano parchi troppo artificiali dove le piante sono solo un corollario.

Il selvatico che entra in città si impossessa dei luoghi vuoti dimenticati che diventano culle di biodiversità affascinanti, che si autogenerano e mantengono. L’uomo potrebbe unire la sua progettualità a quella della natura nel riflettere su come fruire questi luoghi e declamando la bellezza delle erbacce e delle piantacce che riescono a farsi strada tra il cemento. Abbiamo bisogno di luoghi sinceramente diversi dalla nostra società: luoghi dove abbandonare il controllo".

Quali passi muovere per attuare il rewilding in città?

Tornando a farci ispirare da Nigel Dunnet: "Penso che, spesso, il nostro rapporto con i giardini e la piantumazione sia piuttosto 'passivo'. Abbiamo superfici con aiuole piantate, e guardiamo alla piantagione come osservatori. In un giardino più selvaggio, dal carattere davvero immersivo, diventiamo partecipanti, non osservatori.

Siamo attori in esso. Ne siamo circondati e non è solo ciò che vediamo, è ciò che annusiamo e sentiamo, il movimento e tutti gli altri esseri viventi intorno a noi.

In un giardino selvaggio, persone e natura si incontrano, in uno spazio sicuro, interagendo, mescolandosi, creando nuove idee ed energie. Realizzare un giardino, viverlo, coltivarlo, contribuirvi, imparare da esso, parteciparvi e farne parte, è l'espressione ultima e più coinvolgente del rapporto tra le persone e la natura".