Per essere davvero sostenibile, un oggetto deve essere riparabile e disassemblabile. E questo richiede un nuovo modo di progettare. Che, finalmente, prende piede anche nel mondo dell’arredo

C’è un’immagine potente, di due anni fa, che restituisce da sola, meglio di tante parole, il senso di che cosa vuol dire davvero, oggi, pensare a un design in chiave circolare. L’immagine arriva da Ore Streams, il progetto dei Formafantasma dedicato al ciclo (e riciclo) dei device elettronici. È il fotogramma in cui tutti i componenti di un pc, dal più piccolo al più grande, sono disposti su un piano, a ricordarci la complessità e l’ingegno che si nascondono dietro gli strumenti della vita di tutti i giorni

Quell’immagine è potente perché attiva una suggestione inversa rispetto a quella che ci attenderemmo dal design: non ci fa pensare alla perizia nell’assemblaggio di componenti che fa un oggetto bello e funzionale, ma, al contrario, ci porta a riflettere sulla smontabilità di un computer, di un tablet, di uno smartphone, in ogni minima parte, perché tutte possano tornare in circolo ed essere reimpiegate alla fine del ciclo di vita, evitando il ricorso a nuove materie prime. 

In realtà, sappiamo benissimo che la gran parte degli oggetti prodotti oggi, e non soltanto quelli elettronici, non sono disassemblabili, o almeno non lo sono in tutte le loro componenti. Per dire, in uno dei video di Ore Streams, i Formafantasma riferiscono la testimonianza degli addetti al riciclo che lamentano la difficoltà di distinguere i cavi in gomma nera da quelli elettrici in rame. Un intoppo che impedisce a tonnellate di materiale di essere recuperate pienamente. 

Non c’è bisogno di scomodare Victor Papanek e le sue denunce di mezzo secolo fa rivolte all’industria e allo stesso design, accusato di alimentare l’obsolescenza programmata e la non riparabilità degli oggetti, per capire che quello che ci aspetteremmo oggi dai creativi e dalle aziende di tutto il mondo è un patto solidale che spinga a disegnare e a produrre oggetti, analogici e digitali, che possano essere riparati, disassemblati e dunque recuperati nelle loro parti alla fine del ciclo di vita. 

Per questo, la grande scommessa della circolarità, prima ancora che l’impiego di materiali innovativi e riciclabili, è un approccio al progetto diverso, che faccia optare per metodi che rendono riparabile o disassemblabile una poltrona o un pc.

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È la caratteristica che ha reso famoso il Fairphone, lo smartphone olandese riparabile che ha visto la luce nel 2013. Ma anche quella che inizia ad affacciarsi nel design del mobile italiano di alta gamma, con la collezione Sengu di Patricia Urquiola per Cassina – uno dei casi più interessanti e recenti – arredi progettati proprio per essere smontati alla fine di una vita che, comunque, si immagina lunghissima, come si addice a mobili pensati per passare da una generazione all’altra. 

La sfida di progettare per la disassemblabilità caratterizza la bella storia di Astep, l’azienda di lighting design basata a Copenhagen e fondata nel 2014 da Alessandro Sarfatti – figlio di Riccardo e nipote di Gino – per creare e curare invenzioni senza tempo con un approccio innovativo.

Nel catalogo di Astep brilla, in questo senso, Pepa, nata in collaborazione con Francesco Faccin, una lampada candidata a brevetto per la sua tecnologia innovativa. Racconta Sarfatti: “Volevamo creare un prodotto con l'utilizzo di materiali sostenibili e facili da riparare e smontare. A differenza della maggior parte delle altre lampade portatili, Pepa utilizza batterie AA NiMH standard, che si trovano in qualsiasi rivendita di tabacchi o supermercato. Batterie che possono essere facilmente sostituite man mano che invecchiano, quando in genere quelle al litio integrate nella lampada sono destinate a diventare rifiuti elettronici, morendo esse stesse e facendo morire anche le lampade”. 

Pepa, invece, unisce la sostenibilità all’estetica di un gesto semplice (si accende e spegne e si regola nell’intensità ruotandone il corpo come un macinapepe) ed è progettata per essere riparabile dal cliente. “Lo stesso circuito stampato può essere facilmente sostituito dal cliente perché non è incollato nel prodotto” spiega Sarfatti. “La ricarica avviene attraverso qualsiasi tipo di cavo, da smartphone, da laptop o da monitor: nelle nostre case e nei nostri uffici ne abbiamo già abbastanza e di tutti i tipi, non volevamo aggiungerne l’ennesimo”.