Ne ‘Il libro delle case’, Andrea Bajani dà voce ai luoghi reali e simbolici abitati dal protagonista. Una biografia domestica, sentimentale, a tratti collettiva. Lo sguardo di un uomo che, cambiando casa, cambia anche se stesso

Tutto è iniziato con un elenco. Un lungo elenco delle case abitate da bambino o da adulto. Case abitate come figlio, amico, amante o marito, come studente o scrittore, a Roma, Torino o Parigi, in città e in periferia. Case temporanee o fatte per restare, case arredate, svuotate e case per ricominciare.

Il libro delle case di Andrea Bajani nasce da questa lista, creata un po’ distrattamente. “Dopo aver scritto di 35 abitazioni in 500 pagine mi sono accorto di avere per le mani un romanzo”, dice lo scrittore romano ora di stanza a Houston, in Texas, dove è writer in residence presso la Rice University.

Pubblicato a febbraio da Feltrinelli, il libro di Bajani è perfetto per chi ama parlare, discutere e leggere di case, convinto – come siamo tutti noi, amanti del design – che gli spazi e gli oggetti non siano solo una scenografia ma abbiano un ruolo fondamentale nel definire chi siamo e chi diventiamo. I veri protagonisti di questa biografia in 78 brevi capitoli sono infatti gli spazi abitati dal protagonista: un personaggio chiamato Io che si sposta non solo dentro e fuori da essi ma anche avanti e indietro nel tempo, dal 1975 a oggi (compreso un riferimento alla pandemia) compiendo anche uno scatto nel futuro, al 2048 (perché si sa, i luoghi ci sopravvivono sempre).

Per ogni casa, la voce narrante in terza persona sceglie un nome di fantasia, ci dice la città in cui si trova, il tipo di edificio, il piano, ne descrive la disposizione delle stanze, alcuni oggetti e racconta un frammento di vita trascorsa tra quelle mura. E frammento dopo frammento, crea un collage identitario, grazie alle case che tutti noi consideriamo sorde, cieche ma che di noi vedono, sentono e custodiscono tutto.

Anche il catasto ha dei sentimenti

A intervallare la narrazione ci sono le planimetrie del catasto, che secondo Bajani, “consideriamo grigio, inespressivo e noioso ma che paradossalmente pullula di storie e sentimenti, una biblioteca di vite”. Così, mentre la burocrazia entra a pieno titolo nella narrazione, l’autore ricostruisce il “puzzle” di una vita; perché ogni volta che lasciamo una casa dove abbiamo abitato a lungo, ci lasciamo anche un pezzetto di noi, e viceversa quando iniziamo ad abitare una nuova casa possiamo scoprire anche qualcosa di nuovo di noi stessi.

Ed è forse per questo che Bajani non usa le case come semplici fondali ma cerca di prendersi cura di tutto quello che rende una casa tale. Dalle finestre agli scalini, dalle porte ai vetri smerigliati, persino i chiodi ai muri dopo un trasloco doloroso trovano spazio in questo libro che si apre così: “La prima casa ha tre stanze da letto, un soggiorno, una cucina e un bagno”. È la casa del sottosuolo dove il protagonista ha imparato a gattonare e a fare amicizia con Tartaruga che si nasconde tra i vasi del cortile o nel suo carapace (la sua unica abitazione); c’è la casa del materasso degli amici d’università con un tavolo in fòrmica azzurrina, quattro sedie scompagnate, le stoviglie sporche nel lavello e un materasso (appunto) per il nostro ospite; c’è la casa di famiglia con graniglia gialla e grigia, le camere con il parquet, le porte smerigliate, gli arredi di “due vite rincollate in un nuovo esperimento” e poi la casa di famiglia nella variante signorile dove “la metratura è conforme all’ambizione” con i suoi 150 metri quadri, bagni doppi, stanze in sovrappiù, un corridoio rivestito di librerie e una cameretta che sembra un monolocale. 

Per non dimenticare le case-metafora: come la casa dell’amicizia (un abbraccio tra due persone); la casa della voce (la cabina del telefono la cui trasparenza metteva in scena un dialogo privato); la casa del risparmio (il conto corrente) dalla metratura minima o potenziale infinita; o la casa del persempre di forma circolare (l’anello nuziale) che a un certo punto del romanzo farà però i conti nella casa della legge

“È lì che la Casa di Famiglia trasloca per poi dissolversi per sempre. […] Si calcoli uno stanzone di 9x12 m. Si pensi a un’altezza non inferiore ai 5 m. Si calcoli ora la cubatura complessiva dalla Casa della legge. Si proceda – per pedanteria ingegneristica – aggiungendo soffitto e pavimento. Si arrivi al totale, la cui entità corrisponde a 136.400 kg, 136 tonnellate. È sotto quel peso che Io e Moglie stanno in piedi. […] In rapporto a tutto ciò, il resto – la sentenza – ha la sostanza di una piuma. Avviene senza movimenti, in uno spazio che è sostanzialmente vuoto”. Casa della legge, 2018.

L’anima delle case…

Oltre l’apparente distanza creata dallo stile di Bajani (le planimetrie mute, i personaggi anonimi Io, Madre, Padre, Sorella, Nonna e poi Moglie, Bambina…) gli spazi sono intrisi di vita, di ricordi (anche quando Io non se ne ricorda) e di suoni. Sembra di sentirla, la semplice piccola polifonia della cucina che conosciamo tutti: l’acciottolio delle stoviglie, il toc toc regolare del coltello sul tagliere, il getto dell’acqua nel lavello, il ronzio del frigo, la ventola della cappa sopra i fuochi. Alcuni spazi poi sono creati dall’immaginazione, altri ancora inafferrabili dalla memoria.

“Questa casa la si può soltanto immaginare. La conosce solo Nonna […] A sostenerla non ha dunque muri ma parole. L’architrave è l’alfabeto, il calcestruzzo sono le frasi […]. La punteggiatura è servita per fissare la struttura: hanno usato le virgole come chiodi per appenderci dei quadri, i punti e virgola sono serviti di rinforzo […]. Con i due punti hanno fatto passare i tubi e i cavi elettrici nei muri, hanno portato acqua nelle tubature e la luce nelle stanze, si sono accese le lampade in cucina, la radio ha cominciato a mandare canzoni registrate. I punti, infine, hanno assicurato le cose alle cose”. Casa di Nonna Bambina, 1982.

… e l’anima delle cose

E nelle case, naturalmente, ci sono le cose, gli arredi e gli oggetti. L’attenzione del narratore si posa, ad esempio, su tapparelle e tende che diventano un linguaggio segreto tra due amanti; su una tavola sparecchiata dopo un pranzo terminato male; su un armadio che diventa separé nelle conversazioni notturne tra madre e figlia. Quello degli arredi è un vocabolario essenziale quanto poetico. Come sperimentiamo tutti nella vita quotidiana e come ha osservato anche l’antropologo inglese Daniel Miller in Cose che parlano di noi (il Mulino), le relazioni con gli oggetti che possediamo sono spesso molto profonde. “Se potessimo imparare ad ascoltare gli oggetti – scrive Miller – avremmo accesso a una voce autentica” perché le cose che possediamo non sono mai una collezione casuale, ma scelte e conservate nel tempo, come espressione ed estensione di una persona, di una famiglia o di una cultura. Proprio come in Quali cose siamo, l'edizione del Triennale Design Museum curata da Alessandro Mendini nel 2011: una ricerca appassionata nella cultura materiale, un viaggio identitario magico, divertente e ironico per avvicinare il pubblico al design alle oltre 700 “cose” raccolte e accostate con apparente casualità. La casualità torna anche nelle pagine di Bajani quando ricorda la casa della dispersione: un hangar di arredi di seconda mano, accatastati dopo un trasloco, venduti a poco prezzo, stoccati senza criterio estetico, dove si abbina l’improbabile e convivono gli anacronismi. Eppure, dopo tutto, di casuale non c’è proprio nulla.

In apertura, #9243 di Todd Hido. Courtesy Galleria Valeria Bella.