È stato il cantore della felicità della Roma post bellica, che ha disseminato di sogni in formato palazzina: un libro finalmente porta al grande pubblico l’opera di Venturino Ventura

C’è una palazzina all’angolo tra via Montanelli e via Nicotera, a Roma, progettata da Venturino Ventura, che ha i tratti del sogno.

Il tronco longilineo di un pino marittimo ne supera il tetto, appoggiandosi quasi ai balconi della casa per aprirsi solo sopra, dopo l’edificio, in un cielo di ombra e vento. E quel pino marittimo, così tremendamente romano, sembra la fonte d’ispirazione della casa che sorregge: i balconi ampi e circolari richiamano la forma dell’apertura a ombrello dell’albero che non si sa se sorregge l’edificio o, viceversa, ne sia sorretto.

Non solo: ogni balcone è un pino marittimo, o forse un albero che di notte protegge i sogni dei suoi inquilini, mentre di giorno, sicuramente ne garantisce l’ombra, insieme alla vegetazione ospitata su ogni singolo aggetto circolare in cemento.

A guardarla dalla strada, questa casa è una follia che costringe il pedone a fermarsi e a domandarsi chi l’abbia pensata e quando, insieme a come dev’essere abitarci.

Perché i balconi sono sporgenze d’angolo su un parallelepipedo che scorre parallelo al marciapiedi, scandito in maniera quasi banale da finestre e balconi stretti e lunghi, tipici degli anni 60: scorre veloce il tempo in facciata, benché arretrata rispetto alla strada per garantire maggiore tranquillità, e poi si dilata smisuratamente sulle terrazze rotonde che promettono benessere.

Venturino Ventura, architetto dimenticato

L’autore di questa meravigliosa opera architettonica su strada, Venturino Ventura, è l’architetto dimenticato della borghesia romana del dopoguerra.

Nessuno sa dire di preciso perché sia caduto improvvisamente e in maniera irreversibile nell’oblio, nonostante la sua produzione elevatissima di palazzine a committenza quasi sempre privata e di edifici per uffici, tutti riconosciuti di grande qualità architettonica e progettuale.

Del resto con lui sono caduti nel dimenticatoio anche altri nomi, forse meno estrosi di Ventura, che sapeva giocare con i linguaggi architettonici come un poliglotta o un polistrumentista che può scegliere di volta in volta in quale chiave interpretare canzoni e sentimenti.

Gli esordi e l’esilio volontario a Chieti

Della sua storia sappiamo molto poco. Si parla del primissimo periodo della sua carriera, inficiata dalla proclamazione delle leggi razziali proprio mentre disegnava la Torre del Partito Nazionale Fascista (oggi Torre delle Nazioni) per la fiera d’Oltremare di Napoli di cui aveva vinto la gara. Era proprio il 1938 quando progetta l’edificio che verrà realizzato nel 39 e inaugurato nel 40, mentre collabora anche con Amedeo Luccichenti e Vincenzo Monaco alla realizzazione del Padiglione dei Minerali Ferrosi all’VIII Mostra Autarchica dei Minerali Italiani.

Ma la Seconda Guerra Mondiale determina un grave arresto alla sua carriera, a cominciare dall’abbandono di quella accademica, cui è probabilmente costretto dalla promulgazione delle leggi razziali.

Sembra che fosse di origini ebraiche ma anche di questa notizia non si è certi, benché quasi tutti i biografi utilizzino questo dato per spiegare il suo esilio volontario a Chieti, dove si sarebbe effettivamente salvato dalle persecuzioni.

Il periodo post-bellico: Venturino Ventura architetto della borghesia romana

Anni difficili che però consentono a Ventura di traghettare nel dopoguerra romano dove trasforma le sue geniali capacità progettuali in una cifra costruttiva che verrà molto apprezzata dalla borghesia romana. Che, salva dalla guerra, vuole esprimere il proprio benessere (non solo economico).

Se ne fa interprete lui, Venturino Ventura, prendendo come elemento architettonico di base la palazzina, un tipo edilizio relativamente nuovo, regolamentato negli anni 20, quando ne vengono definite le differenze rispetto al palazzo e al villino, e istituzionalizzato dieci anni dopo con il piano regolatore del 1931.

In quella occasione vengono definite le proporzioni della palazzina: un fronte strada di 28 metri con altezza massima di 19 comprendente non più di tre livelli oltre al piano terreno sopraelevato. Come ha scritto Elena Mattia nella sua tesi di dottorato che ha il merito di riportare l’attenzione alle creazioni di Ventura, la palazzina era una «piccola quantità edilizia, un manufatto ben gestibile a scala urbana» che si presta «ad autonome sperimentazioni formali, distributive e stilistiche».

Ogni palazzina è un mondo a sé, sviluppo del villino degli anni 20 e decisamente altro rispetto ai grandi blocchi abitativi a filo strada: se questi caratterizzano la continuità del tessuto urbano, la palazzina lo interrompe.

E Roma è disseminata da creazioni uniche, libere e discontinue che raccontano la felicità che tra gli anni 50 e 60 la borghesia locale voleva vivere e mostrare.

Un sogno, appunto. Che ora Roberta Piroddi raccoglie in un libro, Venturino Ventura. Le architetture romane e il complesso per uffici di piazzetta Morgagni, D editore, a cura di Valerio Bindi.

Forse il primo documento monografico a lui dedicato attraverso saggi di diversi autori, insieme a un volume nato dal materiale raccolto da Stefano Nicita sulla sua pagina Facebook Dov’è l’architettura italiana? e sul suo omonimo profilo Instagram, dal titolo Palazzine in cerca d’autore. La bellezza inosservata di Roma Moderna.

Il viaggio è incentrato sui quartieri Flaminio, Parioli, Pinciano, Salario, Nomentano, Della Vittoria e Trieste dove si trovano esempi eclatanti dei sogni dell’epoca e quelli trasformati in edifici da Vittorino Ventura. Ci sono elementi architettonici di matrice wrightiana in una osmosi con la natura pur restando dentro il tessuto urbano: la vegetazione viene compresa negli edifici, come nel caso della palazzina di via Bruxelles, progettata per contenere un alto cipresso, che passava nella struttura in aggetto dei balconi tramite un foro della misura adatta (e ora ben visibile perché l’albero non c’è più!), oppure prevista dalle immancabili fioriere che avrebbero garantito facciate di verde verticale.

L’organicismo dell’architetto americano si traduce in Ventura anche nell’uso dei materiali e ne dialogo mai interrotto tra interno e esterno, tra luce e ombra, tra città e vegetazione.

Ci sono anche tracce di elemnti più antichi, di un modernismo rivisitato e di un approccio artistico, fino ad arrivare a un vero e proprio dizionario del Ventura che, attraverso modi di dire, espressioni peculiari e una struttura della frase piuttosto rigorosa, esprime la propria personale visione dell’architettura.

Lo dimostra la parte conclusiva del volume di Piroddi, dedicata agli uffici di piazzetta Morgagni, un progetto architettonico e urbanistico di recente ristrutturato e riqualificato, che obbedisce all’idea della sorpresa.

Gli edifici in vetro, ferro e cemento si aprano in una piccola piazza che poi si risolve in una strada pedonale che ha l’attrazione, per chi va a piedi, della scorciatoia.

Un sogno, insieme alle linee geometriche in facciata che confluiscono in pilastri dal sapore dorico. Quelle colonne fondamentali, pronte a sorreggere l’intero edificio diventano fiori di loto, magiche creature vegetali che del cemento e del ferro si nutrono per sostenere gli uomini nel loro abitare.

Venturino Ventura nasce a Firenze nel 1910 e muore a Roma nel 1991. Di Roma, la sua città elettiva, narra la felicità e la dissemina di piccoli sogni in formato palazzina, con scale a chiocciola esterne a interrompere la monotonia della facciata, terrazzi dalle forme inconsuete, fioriere e binari per tendaggi il cui movimento sinuoso è stato ripreso anche in una delle sue più note esili pensiline che dalla strada conducono agli ingressi di quei piccoli regni incantati.

Una di queste infatti sembra una vela mossa dal vento…