Ci sono momenti nella storia in cui sembra che tutto accada e il solo fatto di esserne testimoni proietti in una dimensione di assoluto, indubitabile protagonismo.
Florence Schust Knoll Bassett è una leggenda: ha frequentato tutte le più importanti scuole di architettura degli anni ’30 e ’40, entrando in rapporto con i grandi maestri del Movimento Moderno e crescendo insieme con quelli americani della sua generazione; ha fatto divenire la Knoll una delle aziende del mobile leader nel mercato mondiale, grazie a una visione a dir poco pioneristica; e – come se non bastasse – ha creato un catalogo che è un testo di storia del design.
Le sue note autobiografiche descrivono con una disarmante modestia le tappe di una vita che, se non fosse vera, sembrerebbe partorita da una fervida fantasia letteraria. A partire da un incipit che assomiglia a quello di un super-eroe: Florence Schust, infatti, resta orfana di padre molto presto e perde anche la madre ad appena dodici anni. Quando il suo tutore legale s’industria per assegnarla all’istruzione alla quale l’eredità familiare l’aveva destinata, da parte della bambina viene una sola chiarissima richiesta, che sa di premonizione: studiare architettura.
La scuola eletta è quella del Kingswood School a Cranbrook, nel Michigan. A dirigerla è Eliel Saarinen, il più importante architetto finlandese che qui ha fondato un nuovo campus, seguendo l’invito di un influente editore locale e trasferendosi con la moglie Loja, scultrice e disegnatrice di tessuti, e il figlio Eero. Dopo pochi anni il talento di Florence emerge nitido e la famiglia Saarinen la coinvolge sempre più nella propria vita, quasi adottandola.
La portano con loro in vacanza in Europa, nella casa di Hvitträsk, che è frequentata dai grandi della cultura scandinava, da Alvar Aalto a Gustav Mahler. Finite le superiori, Saarinen padre invita Florence a iscriversi all’Art Academy di Cranbrook, che nel frattempo è diventata la più brillante realtà formativa statunitense: la frequenta la migliore gioventù progettuale americana, dallo stesso Eero Saarinen a Charles Eames, da Ray Kaiser (futura signora Eames) a Harry Bertoia.
E il legame tra Florence e i Saarinen si rinsalda: Eliel e Loja le dedicano attenzioni parentali ed Eero viene da lei descritto come un fratello maggiore. Loja nel 1935 le disegna un abito con la stessa passione di una madre per una figlia, ma lo fa da artista, qual è: si tratta di un collage dove i tratti della figura sono ritagliati direttamente nel materiale di realizzazione.
Un modo di rappresentare che sembra uscito per direttissima dal Bauhaus e che ritroveremo dopo qualche anno nei bozzetti di Florence. Terminata l’Art Academy, Aalto e Saarinen la instradano all’Architectural Association di Londra. Ma dopo poco, a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale, deve rientrare negli States e diviene apprendista di Marcel Breuer e Walter Gropius e poi allieva all’Illinois Institute of Technology di quello che la influenzerà maggiormente: Ludwig Mies van der Rohe.
A questo punto il Pantheon del Bauhaus è al completo, così come la sua formazione e la giovane allieva è pronta per entrare nel mondo del lavoro. È allora che avviene l’incontro più importante della sua vita, quello con Hans Knoll, un giovane immigrato tedesco titolare di un’azienda di mobili, che egli ha intenzione di implementare su suolo americano. La sua è una missione che trova nella giovane Florence un’alleata ancor prima che una compagna di vita.
L’idea, ambiziosa quanto logica, è quella di portare la cultura del progetto dell’International Style nell’abitare. È l’alba di un nuovo umanesimo che ha nella mediazione tra arte e tecnologia uno dei suoi fondamenti. Hans e Shu – il diminutivo col quale saranno celebri tra tutti i loro amici e collaboratori – hanno molto in comune: entrambi nutrono una profonda passione intellettuale per la lezione del Bauhaus; vogliono portare un nuovo design a un ampio pubblico di utenti; credono che il buon progetto possa essere un modo per coltivare talento e, al tempo stesso, offrire qualità.
A questo si aggiungono la rara capacità di businessman di Hans e la visione progettuale di Shu, che di fare la “decoratrice” – destino consueto per una donna dell’epoca – non ne vuole sentire. Lei intuisce che il mondo dell’ufficio è potenzialmente quello più indicato a rappresentare la sua idea dello spazio abitabile.
È il luogo dell’intraprendenza, della brillantezza, della fatica e del lavoro, della disciplina che alimenta le qualità. È lo specchio dell’efficienza americana che lei vuole non solo tutelare, ma addirittura accrescere con il Good Design. Ma sa anche che l’ufficio è uno spazio ad alto contenuto simbolico: è quello che racconta in maniera empatica il carattere di chi lo abita.
E allora la sua interpretazione dell’ufficio diviene olistica: non solo un’organizzazione giudiziosa di spazi per il lavoro, ma anche uno stile di vita, una filosofia tradotta in ambienti. Gli strumenti per la realizzazione del tutto sono nelle mani di Shu e dell’orchestra che lei e Hans creano nel tempo: distribuzione razionale degli spazi; scelta di materiali e colori in accordo con i dettami della Gestalt, la psicologia della forma; compresenza di arredi scultorei e di pezzi di contorno (quello che ironicamente lei definiva “meat and potatoes”).
Per queste due tipologie Shu sa perfettamente chi coinvolgere. Sui pezzi di accento chiama i migliori maestri del passato e del presente: Mies van der Rohe, il suo mentore, che convince a dare al suo catalogo capolavori come la poltrona Barcelona del ’29; il ‘fratello’ Eero Saarinen, che crea per lei arredi continui e sinuosi, dalla poltrona Womb alla celebre serie Tulip; l’amico Isamu Noguchi che, insieme a George Nakashima, connette la cultura occidentale con le sensibilità orientali; lo scultore di metalli e compagno di corso a Cranbrook Harry Bertoia, che, nella massima libertà offertagli da Knoll, progetta una pietra miliare del design, la Diamond Chair.
Si legge nel catalogo una dimensione internazionale e di ampio respiro che permette di coinvolgere anche talenti come quello dell’italiano Franco Albini o del francese André Dupré. E intorno a tutto questo brillare di stelle, Shu disegna la migliore delle partiture, un pentagramma perfetto sul quale far risaltare le loro note più incisive. Lei pensa a pezzi che collegano, connettono, funzionano alla perfezione. Ha imparato la lezione della semplicità, della riduzione, la più difficile perché è quella che fa fare i conti col proprio ego. Ma l’ha appresa da Mies, colui che aveva ribaltato i termini dell’autorialità col suo “Less is more”.
Mrs. Knoll riesce a mettere tutto questo nel suo progetto e al tempo stesso inaugura modalità che faranno scuola nella gestione d’azienda. A partire dalla creazione della sua Planning Unit, un ufficio che si occupa di progettare spazi e che compie una rivoluzione copernicana. Il messaggio all’utente finale è inequivocabile: alla Knoll non trovi solo bei mobili per il tuo progetto, ma il progetto stesso di uno spazio che neanche immaginavi potesse esistere.
Per raccontare questo approccio la designer abbandona piante e sezioni – materiale tecnico che impressiona ma non convince – e presenta ai suoi clienti eloquenti e intuitivi plastici, disegni colorati, collage dove gli ingombri degli arredi sono ritagliati direttamente nei materiali che li costituiranno (un ricordo del collage di quel vestito di Loja?).
Gli spazi sono sobri, calibrati, perfetti nelle misure. Sempre animati dalla presenza di piante, fiori freschi, oggetti personali che conferiscono umanità e tolgono l’algida cornice di un’efficienza in uniforme. Florence disegna per persone, non per asettici manifesti architettonici. Un’immagine ce la restituisce durante uno dei board di presentazione di un progetto tra i più impegnativi, gli uffici per la Connecticut General Life Insurance Company nel 1953.
La stanza è gremita di dirigenti, lei è l’unica donna. Sono tutti più o meno impegnati a discutere, ma lei è la sola che non guarda in faccia a nessuno ed è presa dalla sistemazione del plastico del progetto. Lo cura con amorevolezza e rispetto. È il senso del suo lavoro. Così come cura e amore sono nel progetto per l’ufficio di Hans del ‘51. Qui la parete scura sul fondo e la tenda dorata sono da lei scelte per dare risalto alla carnagione e al colore biondo dei capelli di suo marito. Non è un vezzo, è attenzione e le due cose sono nettamente distinte nella sua lucida visione.
Nel 1955 Hans muore all’improvviso per un incidente automobilistico durante un viaggio d’affari a Cuba. Shu diviene amministratore delegato della Knoll. In una delle molte lettere di condoglianze che riceve in quei mesi, il designer Alexandre Girard esordisce manifestando compassione per la tragedia, ma poi passa velocemente a discutere i termini di un incontro con un cliente importante.
Dietro l’indubitabile freddezza c’è, tuttavia, un’investitura: Florence adesso è il capo. Per dieci anni, dal ’55 al ’65, gestirà l’azienda mantenendola ai vertici di un successo internazionale che ormai non è solo nel nome, ma nel dna stesso della Knoll. Charles Eames, suo compagno di corso a Cranbrook, nel 1957 le scrive “I feel grateful to you for doing such work in a world where mediocrity is the norm”. Un grande attestato di ammirazione, considerando che Eames è non solo un vecchio amico, ma anche un competitor.
Nel 1965, al completamento di uno dei suoi progetti più impegnativi (gli interni del grattacielo della CBS, su progetto architettonico di Eero Saarinen), rassegna le sue dimissioni. Ha appena 48 anni, è all’apice della carriera, ha progettato gli interni per i maggiori centri del potere intellettuale, politico ed economico del mondo. Ha saputo dialogare con i più grandi progettisti della sua epoca, aperto showroom nelle maggiori capitali del pianeta, realizzato icone senza tempo, stretto collaborazioni importanti (per esempio, in Italia con Dino Gavina). Desiderare di più dalla professione è difficile.
Si ritira a vita privata, in Florida, accanto al secondo marito Harry Hood Bassett. Esce dai riflettori sul più bello, ma senza alimentare leggende: non fa il “Salinger del design”. Con convinzione e compostezza resta consulente alla Knoll, ma con profondo rispetto per chi ne sarà alla guida dopo di lei. A noi, che leggiamo la sua storia, piace pensarla come una forma di altruismo restituita alla vita che con lei è stata generosa. E come una bella lezione da trasmettere.
Testo di Domitilla Dardi

