Un Negroni (eccezionale) è una questione di progetto. Parola di Domenico Carella, founder di Carico

È il posto in cui si stacca da tutto. È l’isola contro il logorio della vita moderna. È il luogo in cui ci si distrae e al contempo ci si riconosce. Un bar non è solo un bar. Ci nascono movimenti culturali indomiti, amicizie celebri. I bar hanno visto la stesura di manifesti di ogni avanguardia, delle rivoluzioni, delle dissidenze politiche. E non importa se si sta andando solo a bere un cocktail, magari anche analcolico. Quando ci si avvicina a un bancone può accadere qualsiasi cosa, dall’incontro che ti cambierà la vita a una chiacchierata ispirante.

 “Tutto è importante, dall’interior design ai movimenti delle persone, dalle competenze sociali all’empatia necessaria a un ambiente piacevole, dove si è aperti alla curiosità e a nuove esperienze. In un bar conta ciò che ancora non conosci e che ti farà stare bene”. Domenico Carella è un bar tender fuori dal comune. Quando c’è lui a occuparsene, un locale diventa un progetto. Da anni è consulente dei big player del beverage. Al momento si occupa del design di un tool kit per locali temporanei a firma Campari. Un manuale che accompagna un container con il necessario per aprire un instant-bar.

“È una regia teatrale, il controllo ossessivo di ogni dettaglio è fondamentale” spiega. “Dal tipo di ghiaccio che metto nel drink, fino a come appoggio il bicchiere sul tavolo. L’ho capito osservando gli errori degli altri e chiedendomi come e cosa di può migliorare per far stare meglio le persone”. Nota bene: il ghiaccio buono è quello che si compra evitando le macchine formaghiaccio che consumano energia, acqua e il sistema immunitario degli ospiti. 

Un inizio da adolescente autodidatta – il primo bar nel podere estivo di famiglia a sedici anni. E una carriera fulminante: a 36 anni Carella ha lavorato in cinque continenti, partendo dalla riprogettazione del roof bar di Otto e Mezzo Bombana, due stelle Michelin a Shanghai. All’inizio del 2020 apre Carico. È a Milano, sulla soglia di uno dei numerosi design district. “Quando sono arrivato nel 2019 la città era cambiata. Si sentiva l’onda lunga dell’Expo, il settore si stava internazionalizzando, occorrevano competenze evolute. Carico è il mio sfogo estetico, l’ho progettato perché mi mancava un posto così”.

Di cos’è fatto un locale dove vanno a bere gli chef e i gourmand milanesi? “Il progetto parte dal talento delle persone che ho intorno. Leonardo D’Ingeo è un portento ai fornelli, intorno a lui ho costruito un format semplice e raffinato, bassato su materie prime di grande qualità”. Il paradigma economico del food & beverage si risolve in acquisto/vendo/servo. E secondo Carella un Negroni degno del suo nome, e quindi non un cocktail qualsiasi, non costa più di otto euro. “L’80% del successo di un locale dipende dalla gestione strategica e finanziaria. Devo saper calcolare quanto costa un drink, un prezzo che è fatto di materie prime, ghiaccio buono, bicchiere corretto, tempo di preparazione, comunicazione, formazione delle persone che lavorano con me”. 

Chi progetta locali come Carico è un nuovo tipo di professionista, una via di mezzo fra un operation manager e un creatore ispirato. Ci vuole expertise sul controllo di costi, manuali operativi, strategie e visione, più customer service. È una figura che risolve felicemente il paradigma acquisto-vendo-servo, dentro al quale si decide il successo di un’impresa di ristorazione. Da Carico l’atmosfera è rilassata, ci si trova “bella gente, quella che inviterei a casa mia”. Ogni settimana il menù cambia: il vino naturale, il sakè, il whisky, e l’aperitivo analcolico. È tutto di grande qualità. “Voglio lavorare su un’idea modulare, flessibile, facile da gestire e capace di sopportare il turn over dei menù per rilanciare sempre, provare cose nuove”. 

E infine, l’ingrediente più importante: il talento. Domenico Carella è quello travolgente e ispira l’esplorazione di cocktail sui generis, di piccole prelibatezze, per immergersi nel mare magnum della letteratura che sta intorno a un piatto e a un bicchiere, senza perdersi. “Il talento non si impara, è quello che cerco nelle persone che lavorano con me. Mi interessa capire dove vogliono arrivare, che ambizioni hanno. Gli insegno a parlare, a mettere a terra i problemi e a trovare soluzioni. Lavoriamo in paradiso, voglio che sia così e anche questo si costruisce attraverso un buon progetto”.