Da subito l’imprenditore ha chiaro che per progettare il futuro del design italiano avrebbe dovuto “sedersi sulle spalle dei giganti”, i quali ai suoi occhi non potevano che essere i maestri del Movimento Moderno e, in particolare, quelli cresciuti nell’ambito del pensiero Bauhaus.
Sa che col razionalismo non si può non fare i conti e inizia un progetto intitolato Ultrarazionale, che è “un termine che esprime chiaramente l’intenzione di andare oltre il razionalismo, ma dichiara contemporaneamente la necessità di mantenere un rapporto con il passato”. E quel passato per lui si chiamerà Marcel Breuer.
Gavina vuole proporsi a lui come produttore dei suoi mobili, per rieditarne i capolavori nati negli anni della Bauhaus in autoproduzione. Nel suo stile più unico che raro, Gavina si presenta allo studio di Breuer a New York nei primi anni ’60 come a un appuntamento amoroso, con tanto di enorme mazzo di rose, strappandogli insieme al sorriso anche il permesso di riedizione.
“Dall’incontro con Breuer nasce un nuovo rapporto tra cultura e industria”, come avrà modo di scrivere Virgilio Vercelloni nella più importante monografia esistente sull’imprenditore bolognese.
Infatti, verrà inaugurata una modalità che spesso indentificherà la produzione del design Made in Italy, ovvero quella di editare su scala industriale, quindi in serie aperta, grandi capolavori del passato. Superare il razionalismo, in questa visione strategica, vuol dire portarne la modernità nel contemporaneo e farla propria.
Ma questo vale, secondo la visione gaviniana, per i soli progetti pensati con una logica di serie industriale. Infatti, quando poco tempo dopo gli verrà proposto di editare anche gli arredi di Perriand-Le Corbusier, egli rifiuterà con veemenza giudicandone la produzione “folle dal punto di vista industriale” (con grande beneficio di Cassina, ma questa è un’altra storia).