Il centenario della nascita di Dino Gavina nel 2022 è stato l’occasione per riscoprire una delle figure imprenditoriali più importanti del design italiano. La prima ad avere innestato il linguaggio dell’arte nella produzione industriale dell’arredo, introducendo così il concetto di ‘fabbrica artistica’

Il 7 novembre Dino Gavina avrebbe compiuto 100 anni. E con ogni probabilità avrebbe escogitato qualcosa di sovversivo, l’aggettivo con il quale amava definirsi tanto da utilizzarlo come sua qualifica – quasi fosse un mestiere – sul suo biglietto da visita.

Ma questa è storia arcinota a chi già lo conosce. La sfida, dunque, risiede oggi nel raccontare Gavina alle generazioni che non ne hanno mai sentito parlare, quelle che non sanno che l’idea del contemporaneo – così come quella del futuro o del moderno – non è sempre esistita e immutabile, ma, al contrario, viene nel tempo progettata e interpretata.

E, se c’è stato un inventore del contemporaneo nel nostro design, quello risponde quasi certamente al nome di Dino Gavina, a cui Bologna ha dedicato ora la mostra Cento % Dino.

Negli anni del dopoguerra, infatti, egli ha saputo dare una sferzata decisiva al design italiano, giunto con grande ritardo tecnologico e formativo rispetto alla scena internazionale.

In un panorama dominato dal mobile in (falso) stile antiquario o che identificava la modernità con il design scandinavo, Gavina capisce che la partita italiana può essere vinta solo attraverso la valorizzazione della cultura artistica nel prodotto industriale di arredo.

La sua personale attitudine, febbrilmente prensile e curiosa, lo porta a diretto contatto con artisti e architetti che cedono sotto la sua determinazione alle proposte di collaborazione.

Da subito l’imprenditore ha chiaro che per progettare il futuro del design italiano avrebbe dovuto “sedersi sulle spalle dei giganti”, i quali ai suoi occhi non potevano che essere i maestri del Movimento Moderno e, in particolare, quelli cresciuti nell’ambito del pensiero Bauhaus.

Sa che col razionalismo non si può non fare i conti e inizia un progetto intitolato Ultrarazionale, che è “un termine che esprime chiaramente l’intenzione di andare oltre il razionalismo, ma dichiara contemporaneamente la necessità di mantenere un rapporto con il passato”. E quel passato per lui si chiamerà Marcel Breuer.

Gavina vuole proporsi a lui come produttore dei suoi mobili, per rieditarne i capolavori nati negli anni della Bauhaus in autoproduzione. Nel suo stile più unico che raro, Gavina si presenta allo studio di Breuer a New York nei primi anni ’60 come a un appuntamento amoroso, con tanto di enorme mazzo di rose, strappandogli insieme al sorriso anche il permesso di riedizione.

“Dall’incontro con Breuer nasce un nuovo rapporto tra cultura e industria”, come avrà modo di scrivere Virgilio Vercelloni nella più importante monografia esistente sull’imprenditore bolognese.

Infatti, verrà inaugurata una modalità che spesso indentificherà la produzione del design Made in Italy, ovvero quella di editare su scala industriale, quindi in serie aperta, grandi capolavori del passato. Superare il razionalismo, in questa visione strategica, vuol dire portarne la modernità nel contemporaneo e farla propria.

Ma questo vale, secondo la visione gaviniana, per i soli progetti pensati con una logica di serie industriale. Infatti, quando poco tempo dopo gli verrà proposto di editare anche gli arredi di Perriand-Le Corbusier, egli rifiuterà con veemenza giudicandone la produzione “folle dal punto di vista industriale” (con grande beneficio di Cassina, ma questa è un’altra storia).

Nel frattempo tra Bologna, Milano e poi Foligno, dove avrà sede la sua fabbrica disegnata dai fratelli Castiglioni, Dino frequenterà tutti i più grandi autori di quegli anni: Lucio Fontana lo introdurrà nell’ambiente della Triennale dove lui conoscerà Pier Giacomo Castiglioni, suo sodale di una vita insieme agli Scarpa, padre e figlio.

E poi gli incontri magici con Marcel Duchamp, Man Ray, Meret Oppenheim, Roberto Sebastian Matta… e non basterebbe un’enciclopedia del Novecento per descriverli.

Nel 1967 viene fondato il Centro Duchamp che è una fabbrica artistica: sembra un ossimoro, ma è in realtà anch’esso un preciso piano strategico, basato sull’idea che “la produzione è il mezzo di comunicazione più efficace del nostro tempo”. In quegli anni il Centro diventerà il luogo propulsore della sperimentazione di molti artisti e i progetti con i Castiglioni saranno innanzitutto “provocazioni formali”.

Riferisce Vercelloni: “Pier Giacomo diceva ironicamente a Dino Gavina riferendosi alla sedia Lierna: con questo freghiamo la signora che compra un pezzo nuovo pensandolo antico”. D’altra parte la battaglia contro il falso antico era (ed è tutt’oggi) ancora viva e in questo contesto l’imprenditore viene ad assumere il ruolo non di un mero produttore commerciale, bensì di un operatore estetico.

Sensibilità per l’estetica e tecnologia, però, devono andare di pari passo e sul fronte squisitamente tecnico-innovativo i prodotti Gavina di quegli anni non hanno niente da rimproverarsi. I divani di Takahama e le sedute di Matta, per esempio, sono sì provocazioni, ma anche oggetti tecnici ineccepibili, pensati per utilizzare finalmente il poliuretano nelle sue potenzialità industriali reali, tagliandone i volumi in grossi blocchi.

Del lunghissimo elenco di progetti visionari ne vogliamo ricordare tre.

Il primo è la serie dell’Ultramobile del 1971, una collezione di opere d’arte in edizione aperta con pezzi, tra gli altri, di Matta, Duchamp, Oppenheim: qui si realizza l’obiettivo gavinano di liberazione dal meccanicismo forma-funzione del razionalismo e il mobile si espande nei suoi significati altri, quasi proseguendo l’operazione di rottura avviata nel 1936 a Parigi con la mostra sull’oggetto surrealista.

Nel testo introduttivo alla presentazione della serie, che aveva tutte le modalità dell’esposizione artistica, si parla di mobili domestici come “torpidi animali imprevedibili” che vanno riportati a una “meraviglia primordiale”, creando “l’oscura sensazione che una sedia è vivente come una rosa”.

Il secondo progetto chiave è la serie del Metamobile del 1974, che mette in produzione la ricerca già iniziata mesi prima da Enzo Mari nella sua Proposta per un’Autoprogettazione.

In questo caso si trattò dell’“offerta del kit per l’autocostruzione di mobili poveri ed essenziali, ad estetica garantita”, arrivando alla situazione-paradosso di un produttore che realizza componenti di arredo che invitano all’autoproduzione: una sorta di metaprogetto che forse è nel suo significato il vero capolavoro concettuale del grande sovversivo.

Terza pietra miliare è quella del 1983 con Paradisoterrestre, ricerca decennale sul rapporto tra artificiale e naturale che ha al centro il dialogo tra manufatto antropico e contesto cittadino, con elementi di arredo urbano che sconfinano nella scultura, e che oggi si rivela profetica.

Mai come adesso, infatti, è chiaro che la relazione fragile tra uomo e ambiente richieda attenzione, riflessione e cultura.

Perché “se non si conoscono la letteratura, le arti figurative e magari un po’ di musica, non si può comprendere o progettare un mobile, che è l’espressione del tempo in cui è stato realizzato”.

E questo pensiero è forse il più bel regalo che Gavina continua a lasciare a tutti noi. Tanti auguri, Dino.