Mendini nel ricordo di Andrea Branzi, Alberto Alessi, Beppe Finessi, Alessandro Guerriero e Fabio Novembre. Scomparso lo scorso 18 febbraio, è stato uno dei grandi innovatori del design italiano. Con il suo talento eclettico e sperimentale, ha condotto il progetto fuori dai canoni della modernità classica per aprirlo all’espressività di nuovi linguaggi
protagonista a un evento di Interni
Andrea Branzi
Con la morte di Alessandro Mendini (e poco tempo prima di Tomás Maldonado) si chiude una pagina importante della storia del design italiano; una pagina conflittuale che ha riguardato il tentativo di rinnovare non solo il linguaggio ma anche il modo stesso di intendere il progetto, portandolo fuori dai limiti della mera disciplina per collocarlo tra le attività intellettuali, strumento sensibile dei cambiamenti della società e dei suoi orizzonti storici. È stata una lunga vicenda che ha influenzato il design internazionale, avviando per via eretica o iper-ortodossa verso il XX secolo la post-modernità, la globalizzazione e i nuovi mercati. In questo senso gli anni ’70, e tutti gli anni ’90 e oltre, sono stati segnati dalla grande influenza delle riviste di settore (di cui Alessandro, ma anche Tomás, sono stati gli indiscussi protagonisti), dalla presenza dei post-radical, dai laboratori sperimentali, dalla diffusione di massa della professione di design in tutto il mondo, dalla domanda di innovazione da parte di qualsiasi ambito produttivo per affrontare la concorrenza internazionale; ma anche da una opposizione compatta degli ultimi eredi della scuola di Ulm e dei suoi teoremi ideologici. L’Italia diventò così in quegli anni il teatro di uno scontro tra due visioni opposte dell’universo merceologico.
La crisi del razionalismo, del funzionalismo e di ogni tipo di metodologia progettuale era la conseguenza di una profonda rivoluzione che il marketing tradizionale stentava a intercettare. Così come l’idea di una componibilità, di una serialità, del coordinamento e di una sostanziale inespressività delle singole componenti dei sistemi di arredo coincidevano con una interpretazione della logica fordista della catena di montaggio.
Come ha scritto Pier Vittorio Aureli, l’Italia durante gli anni ’60 aveva espresso (per l’ultima volta) due culture che avevano avuto una vasta eco internazionale: la Tendenza di Aldo Rossi, e il Movimento Radical delle avanguardie fiorentine; due gemelli eterozigoti che già uscivano, in maniera diversa, fuori dai canoni e dalle certezze della Modernità Classica.
Ma in molti paesi il design viveva un’attesa sul modo di superare uno stato di incertezza sempre più profondo e guardava verso l’Italia e verso la sua vitalità e maturità. Nel 1982 la Domus Academy (prima scuola internazionale post-graduate) intercettò questa attesa invitando a insegnare i grandi maestri, la nuova generazione, i nuovi tecnologi, i nuovi sociologi, impegnandoli su nuovi tremi di progetto. Ma anche il DAMS a Bologna si impegnò, durante gli anni ’70, in nuove pratiche didattiche.
Il Nuovo Design Italiano nacque a Milano in questo clima di diffusa sperimentazione, e riuscì a dare uno scenario strategico unitario a queste multiformi energie anarchiche, rispetto alle quali la critica, ma anche l’industria, restavano incerte, se non indifferenti. Ciò che stava avvenendo era infatti il progressivo e inarrestabile sbriciolarsi dei grandi mercati di massa, e il formarsi di una costellazione di piccoli mercati di tendenza, non più corrispondenti alle fasce di censo, ma piuttosto a scelte di gusto: il prodotto non doveva più proporsi di essere accettato da tutti, ma doveva essere in grado di “selezionare il proprio utente” attraverso nuovi linguaggi, decori, colori; da qui i primi liberi laboratori sperimentali, come Alchymia e successivamente Memphis. Le industrie, inizialmente sospettose, compresero a poco a poco che effettivamente il mercato era cambiato, e iniziarono a sperimentare nuove strategie merceologiche.
Adesso questa fase di trasformazione del mercato e della società si è compiuta; le vecchie contrapposizioni non hanno più ragione di esistere e lo sperimentalismo e l’innovazione non riguardano più le sole minoranze, ma l’intero sistema produttivo. La nuova generazione di creativi, nel design come nella moda, a differenza della mia generazione, non ha l’urgenza di ‘liberarsi da qualcosa’, di superare dei limiti, di abbandonare convenzioni, perché non ha un passato con cui confrontarsi. Noi che, come dice Pier Paolo Pasolini, “viviamo nella storia” guardiamo incerti la loro tenera ignoranza, la loro incosciente libertà, e ricordiamo quando anche noi eravamo bambini che guardavano un mondo che non gli apparteneva.
Alberto Alessi
Sandro è stato il mio mentore a partire dal 1977. Molto di quello che è successo alla Alessi è partito dalle sue garbate proposte, che erano poi a volte veri e propri suggerimenti, ma più spesso semplici riflessioni fatte ad alta voce. Mi rammarico un po’ perché di solito lo costringevo a lunghe sedute a tavola, nonostante lui non mangiasse quasi niente e mi sembrava si nutrisse di spirito. Poi negli ultimi anni era cambiato, manifestando un certo interesse per il cibo a condizione che fosse molto buono e delicato, e naturalmente offerto in quantità minime. Insieme abbiamo esplorato i confini dell’estetica del paesaggio domestico, se ne esiste una. Abbiamo condiviso momenti difficili anche sul piano privato, mi è stato sempre straordinariamente vicino e disponibile. In fondo ci siamo anche divertiti. E per me resterà sempre lassù, nel suo ufficetto troppo caldo al piano rialzato dell’Atelier di via Sannio, curioso delle novità che gli porto e pronto a darmi l’ennesimo parere. Come è accaduto con mio padre, sono sicuro che mi troverò spesso a chiedermi cosa ne direbbe di questa tal cosa che ho per le mani…
Beppe Finessi
Alessando Mendini ovvero il Maestro di questa nostra contemporaneità che ha saputo essere un progettista visionario, metodico e lucido, e un instancabile e generoso sostenitore del lavoro di tutti quelli bravi venuti (prima e) dopo di lui. Nella storia del design italiano, che brilla per una costellazione di autori evidentemente unici, Mendini occupa – da extraterrestre – un posto a sé: dopo essere cresciuto con l’arte di Savinio, e dopo aver sognato Steinberg, è diventato grande rinnovando e inventando riviste, e lì ha imparato a incrociare pensiero e progetto, a tracciare riflessioni teoriche e ospitare innovative ipotesi di architettura, e poi a immaginare azioni culturali per diffondere soprattutto l’opera di altri autori, sempre credendo nel valore della diversità.
E così, mentre le sue architetture diventavano accenti policromi nei luoghi più sensibili alle arti, e mentre i suoi gesti radicali finivano nei musei e i suoi oggetti industriali nelle case di ognuno di noi, Mendini non ha mai smesso di tratteggiare spazi dove promuovere in tempo reale l’opera degli architetti, dei designer e degli artisti di talento che di volta in volta incontrava, accorgendosi con le sue sensibilissime antenne – da vero uomo radar – anche di quelli più defilati e silenziosi. Nel toccare ogni ambito delle discipline creative, Mendini ha governato con una precisione al laser due strumenti di lavoro per lui complementari: il disegno, fresco e affilato al contempo, con schizzi sì da cartoonist ma graziati da una capacità esplicativa da tavola esecutiva; e la scrittura, precisa e analitica, sostenuta da un linguaggio colto che gli permetteva di distillare sempre e senza sforzo la parola giusta, mostrando, sottovoce, un sapere realmente enciclopedico.
Fabio Novembre
Nella teoria dell’informazione di Shannon si stima che la ridondanza linguistica, ovvero l’uso di parole superflue per la comunicazione di un concetto, si aggiri attorno al 70%. Questo dato apparentemente impietoso viene confermato quando ci troviamo a trascrivere interventi o interviste registrate vocalmente. La grande eccezione che conferma la regola di Shannon ha un nome e un cognome: Alessandro Mendini. In rete si trova molto materiale che può confermare questo mio pensiero: Alessandro non ha mai sprecato una parola. Ma questa era una filosofia di vita: tutto quello che nel lavoro di Mendini può sembrare esagerato e massimalista non è altro che un processo di sottrazione ottenuto con gesti netti, mai casuali.
Come la sua condotta di vita: austera al limite del monacale, morigerata e onesta, come non si può immaginare. A questo proposito ho un ricordo risalente a due anni fa: nel periodo del Salone eravamo entrambi stati chiamati per un servizio fotografico insieme ad altri designer. A lavoro finito tutti risalirono sulle loro macchine con autista per correre verso altri impegni, ma non Alessandro, che vidi incamminarsi verso la metropolitana. Gli chiesi sorridendo se si fidava di un passaggio sul mio scooter, lui mi rispose con il suo solito garbo affettuoso che la metropolitana era la soluzione più comoda e veloce. Aveva 85 anni ed era la vera superstar di quel gruppo, oltre che il mio eroe.
Alessandro Guerriero
Sandro e Sandro…
In pratica ci si appropria, ci si impossessa (anima e corpo) di un artista o designer esistente. Nella scelta già si capisce che ci possono essere delle affinità... Se ne studia il percorso, la vita, i segni, le opere lentamente... Si diventa l’altro... E un attimo dopo si continua il ‘suo’ lavoro. Vedere se stessi può provocare immediatamente un senso di doppia presenza e di divina percezione. È terribile espropriazione. Usando gli stessi segni dell’altro, le stesse modalità, gli stessi stilemi, si ottengono gli stessi strumenti per (osare) fare il passo successivo. L’uni-verso diventa di-verso. L’uno diventa l’altro. Si dice che tutti si abbia un se stesso rovesciato rispetto alla propria natura e che sia sperduto in qualche angolo del pianeta…
Nel lento procedere delle due entità ci potranno essere similitudini o diseguaglianze, ma solo più tardi il tempo utopico potrà dare senso a queste scelte. Quale sarà la sua evoluzione? Uguale all’originale? Diversa? Ci sarà sicuramente il progetto plurimo che sostituisce all’unicità d’un io pensante una molteplicità di soggetti, di voci, di sguardi sul mondo. Ci sarà l’opera che nell’ansia di contenere tutto il possibile non riesce a darsi una forma e a disegnarsi dei contorni. Ci saranno progetti che corrispondono in filosofia al pensiero non sistematico, che procede per aforismi, per lampeggiamenti puntiformi e discontinui. E ancora altri costruiti con molte storie che si intersecano, perdendosi… Alla fine, questa idea complessiva di infiniti ‘universi’ contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate nelle varie combinazioni plausibili sarà il vero risultato. Oggi il progetto vero vive solo se si pone degli obiettivi smisurati anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione.
In questo video, realizzato in occasione dell'evento di Interni “Material Immaterial al FuoriSalone 2017, Alessandro Mendini racconta la sua installazione “Pergola”.