Filippo Taidelli, architetto, racconta le nuove health facilities: compatte, diffuse, tecnologiche e progettate ascoltando le esigenze reali di medici e pazienti

Filippo Taidelli ha progettato, a tempo record, il padiglione Emergency 19 per l'ospedale Humanitas di Rozzano. Non è la prima volta che lavora all'ideazione di una health facility ma, ovviamente, la pandemia ha rivoluzionato anche il pensiero che sta dietro la concezione di uno spazio di cura in cui l’uomo è al centro. Gli abbiamo chiesto come si progetta un ospedale oggi.

Come si diventa progettisti di ospedali?

Sono un allievo di Mario Cucinella: gli ambiti del retrofit e della tecnologia erano già nelle mie corde fin dagli esordi. Ho cominciato a confrontarmi con i temi dell’health care quando mi sono occupato degli headquarter e del campus universitario per Humanitas (una delle grandi strutture ospedaliere private di Milano). Passare alla progettazione delle facilities sanitarie è stato un percorso fluido che ha precisato il mio interesse per temi che sono da sempre parte del mio lavoro.

Qual è il lavoro dell’architetto in ambito sanitario?

In passato l'architetto era visto come poco più di un interior decorator in un ambito così tecnico e scientifico. Oggi invece è uno degli attori fondamentali della progettazione integrata. È l’unico che segue tutto l’iter progettuale e ha un contatto diretto con il cliente finale e tutti i player del processo. In un mondo iper normato riesce ad avere una visione organica del lavoro, e ha la responsabilità di gestire contemporaneamente masterplan e dettagli, dal progetto del verde alle facilities.

L’obiettivo è di costruire una visione concreta sui temi dell’umanizzazione degli spazi della cura. L’ospedale è uno spazio a rischio di rapida obsolescenza, perché la tecnologia, e quindi i processi di diagnosi e cura, evolvono rapidamente. Il ruolo dell’architetto è di amalgamare e monitorare tutte le attività per essere certi che lo spazio sia terapeutico, così come la somministrazione delle cure e degli esami.

Cosa significa umanizzare lo spazio di cura?

In realtà basta poco per far sentire qualcuno in un luogo accogliente. La luce, la temperatura, il controllo del rumore, i colori delle superfici e la relazione con l’esterno. Non c’è nessuna controindicazione, al netto dei limiti normativi, nell’integrare elementi fondamentali per l’essere umano all’interno di un luogo ad alta efficienza tecnica e professionale. Ed è necessario innanzitutto per i pazienti, ma anche per le persone che lavorano all’interno dell’ospedale.

Emergency 19 è un padiglione costruito a tempo record in un momento di grave pressione sanitaria. Come è stato progettato?

Emergency 19 è un padiglione per la gestione delle emergenze Covid all’interno della struttura Humanitas di Rozzano e di Bergamo. È un edificio composto da moduli prefabbricati, di tipo non dissimile da quelli normalmente utilizzati nei cantieri. È una struttura effimera, ovvero smontabile e rimontabile in altre parti del mondo.

Ha grandi aperture verso l’esterno, schermate da un rivestimento a pettine che lo protegge dalla luce e dal calore. Ed è pensato per poter essere un edificio energeticamente autonomo, in grado di lavorare anche off grid. Gli accorgimenti che ne fanno un luogo a misura d’uomo, malgrado la sua natura sanitaria e emergenziale, sono molto semplici.

Le stanze si aprono sul paesaggio circostante, i pavimenti sono in legno, le superfici hanno pattern decorativi tenui e riposanti. Le parti tecniche sono integrate in un involucro piacevole. Il controllo del ricircolo d’aria, i processi di sanificazione in entrata e in uscita, le parti comuni pensate come health garden…  Emergency 19 è un padiglione in cui efficienza e funzionalità sono circondate di bellezza e attenzione per l’uomo.

È stato un lavoro di coprogettazione?

Le strutture sanitarie richiedono sempre un confronto diretto con il personale sanitario, gli ingegneri e i tecnici. Il lavoro concertato per Emergency 19 ha però fatto emergere l’importanza del fattore empatico e collaborativo. Ci sono regole, norme, esigenze con cui si dialoga costantemente. La volontà di fare uno sforzo comune per trovare in modo pragmatico e flessibile soluzioni sensate e rapide è fondamentale.

Credo che i problemi si risolvano sul campo, dialogando. In questo progetto in particolare il confronto con i medici è stato importantissimo: la loro capacità di guardare le cose con gli occhi del paziente, di mettersi al suo posto, mi ha non solo stupito ed emozionato, ma concretamente aiutato a capire in quale direzione lavorare per rispondere ai bisogni elementari di chi deve essere curato. E alcuni pazienti, una volta superata l’emergenza, hanno commentato la bellezza del luogo. Questa è la direzione giusta.

Wearable device, diagnosi a distanza, intelligenza artificiale e bioingegneria stanno cambiando il volto degli ospedali?

Le health facilities diventeranno sempre più compatte, i processi diagnostici saranno sempre più affidati a tecnologia portatile, molte parti del processo saranno facilmente diffuse sul territorio e i pazienti saranno curati a casa. La tecnologia esiste già: ci sono dei limiti normativi che faticano a consentire un’evoluzione rapida.

Forse, dal punto di vista architettonico, potrebbe essere sensato rivalutare la progettazione a piccoli moduli chiusi, come si faceva cent’anni fa. E rinunciare agli open space e alle megastrutture dispersive e di difficile gestione anche dal punto di vista sanitario.