La salute pubblica non è solo combattere le malattie ma prendersi cura delle persone. Per arrivare a questo serve più visione e progetto transdisciplinare e speculativo ma pronto a prototipare velocemente ed efficacemente, con le giuste risorse e con menti aperte e collaborative

* Stefano Maffei, insegna Advanced Product-Service System and Production Models, Service Design e Teorie e Culture dell’Innovazione alla Scuola del Design del Politecnico di Milano. È il direttore di Polifactory, il makerspace del Politecnico.

La salute è importante.

Ma ci rendiamo conto di quanto lo sia solo quando la vediamo minacciata.

Non solo la fondamentale salute individuale però, di cui siamo gli unici regolatori in un eterno confronto con il nostro Stato paternalista.

Stiamo parlando dell’importanza della salute pubblica. Che è fatta di una serie infinita di regole, decisioni, azioni, processi, tecnologie, artefatti di cui noi mediamente non ci accorgiamo.

Ed ecco che l’emergenza che ha impattato e trasformato la nostra vita quotidiana ha funzionato come una lente che ingrandisce i dettagli di ogni piccola parte di questo sistema: facendoci riflettere sull’essenza della nostra esistenza e proiettando una luce distopica.

Vediamo la nostra salute individuale dipendere dalla medicina. Ma l’idea di salute è più del concetto semplice obiettivo-da-raggiungere, la distruzione della malattia. Salute non è solo eliminare il male ma anche vivere sani. Che vuol dire stare bene, curarci di noi e degli altri. La salute non è quindi mai un atto individuale ma uno che richiede la presenza e la relazione con l’altro.

“… Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie

Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via

Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo

Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai…”

Franco Battiato

Questa dimensione sociale della cura è alla base di qualsiasi oggettiva idea di benessere ma è anche quella che abbiamo trascurato negli ultimi anni.

È facile rendersene conto se si legge La Cura, il racconto-esperimento di Oriana Persico e Salvatore Iaconesi. Quest’ultimo, a cui è stato diagnosticato un tumore al cervello nel 2012, decide insieme alla compagna di affrontare malattia e cura in modo aperto, collettivo: pubblicando la propria condizione clinica online e dando la possibilità a chiunque di partecipare al suo percorso. In quello che è poi diventato un libro, i due scrivono che “…non esiste la cura se non nella società…”.

La cura (to care for) è insomma più della sola medicina. “…Le persone sono più sane e si riprendono più velocemente se sentono di esser parte di qualcosa di più grande. Quando soddisfano i loro bisogni di salute e non solo quelli clinici. Ciò vuol dire avere relazioni positive ed essere parte di una comunità in cui le persone condividono esperienze e si sostengono a vicenda”.

Al centro di questa riflessione sta quindi il cambiamento dei modelli di welfare. O forse l’immaginazione di un welfare futuro antropocentrico ma non positivisticamente progressista. In grado di rispondere alle sfide globali del cambiamento climatico, della necessità di un new green deal, della redistribuzione inclusiva della ricchezza e delle possibilità di accesso a educazione, lavoro, diritti.

La salute pubblica è anche la cartina di tornasole di questo processo che non si accoppia linearmente con il progresso della tecnologia: “…Con l'aumento delle disuguaglianze sanitarie, l'aspettativa di vita e il numero di persone che vivono con condizioni di salute fisica e mentale a lungo termine, ci aspettiamo da tempo un cambiamento degli investimenti nella ricerca e un approccio più sperimentale e partecipativo. Solo il 5% degli investimenti nella ricerca sanitaria è destinato alla prevenzione. Questo ci dice molto sulla portata del problema, ma poco sulle soluzioni…”.

Dobbiamo riprogettare il Sistema della cura includendo in maniera significativa una cosa che il governo tecnocratico della salute ha espulso: noi.

Quindi i nuovi processi d’innovazione del care dovranno includere una rappresentanza sempre più forte degli interessi, dei bisogni, delle valutazioni di noi cittadini, utenti principali dei modelli che ogni giorno viviamo. Un’innovazione mission-oriented significa in questo caso aprire il grande sistema della cura alla collaborazione delle competenze, delle visioni, delle risorse (e i loro ecosistemi di stakeholder).

Quindi processi d’innovazione aperta e dal basso (open e bottom-up), ascolto dei bisogni, partecipazione e co-design dei processi del care che non possono essere lasciati solo nelle mani dei policymaker o dell’impresa. E una partecipazione che allarghi il gioco dall’altra parte del campo, ai pazienti, ai caregiver. Che usi la patient innovation come complemento alla tecnologia stessa.

Nesta, il think tank finanziato dal governo inglese (non ci sono solo Brexiter in UK…) ha recentemente lavorato sul tema della Future of health research. E ha immaginato un progetto visionario, The Nightingale. È un nuovo centro di ricerca e innovazione d’eccellenza (intitolato a Florence Nightingale) dedicato allo sviluppo di modelli sociali, comportamentali o ambientali che migliorino la salute pubblica. Che cosa dovrebbe fare? “…mescolare le discipline (ad esempio salute pubblica, ricerca, scienze sociali, dati, progettazione e sviluppo della comunità) per riflettere la natura poliedrica delle sfide della salute pubblica e l'impatto del contesto e dell'esperienza locale. Gestire un intenso modello di ricerca e sviluppo che crea soluzioni basate sull'evidenza, usando una combinazione di idee creative, sperimentazione pratica e valutazione rigorosa che va oltre la sola ricerca. E ricevere un budget di £ 140 milioni all'anno entro il 2025...”.

Meno commissioni tecniche e di soli esperti. Che ci danno solo regole.

 

Quello che ci serve ora è quindi più visione e progetto transdisciplinare, future oriented e speculativo. Ma pronto a prototipare velocemente ed efficacemente, con le giuste risorse e con menti aperte e collaborative.

Il progetto del futuro: un Ministero della Cura, progettante e iconoclasta che sappia sviluppare il bene comune più prezioso. La nostra salute pubblica.

 

In apertura, nella foto di Jaap Beyleveld, l'installazione Iye del media artist e sound designer Pim Boreel dedicata alla vulnerabilità fisica degli esseri umani che verrà presentata nell'ambito di Embassy of Health, in occasione di Ducht Design Week Eindhoven, 17-25 ottobre 2020.