* Alessandro Melis, architetto e Professore, Direttore Cluster for Sustainable Cities, University of Portsmouth (UK), Curatore del Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2020.
Conosciamo da tempo gli impatti dei cambiamenti climatici sulla salute. E anche chi ne soffrirà maggiormente. Secondo l’ONU, saranno soprattutto negli insediamenti con inadeguate infrastrutture per acqua potabile, servizi igienico-sanitari e con qualità abitativa scadente. Cioè gli agglomerati dei più poveri, quelli meno progettati e pensati da urbanisti e architetti.
C’è qualcosa di drammaticamente ingiusto in tutto questo. La città pianificata – il concetto “evoluto” di agglomerato urbano – contribuisce alla crisi ambientale ma chi ne subisce gli effetti sono gli insediamenti informali. Che poi, di conseguenza vengono additati come un problema, anziché la conseguenza del problema stesso. Invece dovremmo osservarli con grande attenzione.
Nell’informalità urbanistica, infatti, si possono trovare soluzioni creative e inaspettate e pratiche comportamentali a basso impatto e di coesistenza con specie non umane. Come nell’algerino El Houma, nel centro storico di città del Messico o nei sobborghi di Akure.