La Terra è come un’astronave che ci porta in giro e come accade su un’astronave le risorse sono limitate e vanno gestite bene. È pensabile essere in uno spazio finito e gettare sistematicamente molti degli oggetti che usiamo, dovendoli poi gestire in questo contesto limitato?
Credo che questo sia l’approccio corretto per iniziare a ripensare gli usa e getta, in particolare in plastica, materiale nato per essere eterno e ora destinato per il 40% della sua produzione agli imballaggi.
A rigor di termine sono monouso gli imballaggi, i contenitori per il cibo e le bevande per il take-away, ma anche salviette umidificanti e dischetti struccanti, accendini, penne non ricaricabili e un’altra miriade di prodotti del nostro quotidiano.
Quanti sono gli oggetti che buttiamo in tempi brevi o brevissimi se ci fermiamo a riflettere?
In Europa va a riciclo solo il 31% della plastica immessa sul mercato e il 40% degli imballaggi – cifra approssimativa per difetto. Il resto viene bruciato, nel migliore dei casi, o disperso in discariche o (caso peggiore) nell’ambiente, con una ricaduta pesante in termini di CO2 (a livello globale si stima che l’incenerimento della plastica generi 400 milioni di ton di anidride carbonica all’anno) e di perdita economica.
Il concetto di usa e getta è di per sé negativo, indica mancanza di cura e affezione. Quello che amiamo vogliamo che duri per sempre. Ma allora perché ci siamo adeguati all’idea che esistano oggetti destinati a durare pochi minuti?
Sono diverse le cause che ci hanno fatto accettare di usare e gettare in un arco di tempo ridotto. Sono i bisogni indotti dalla pubblicità, l’estremizzazione del concetto d’igiene, la volontà dei produttori di fossili di trovare un’ulteriore destinazione ai prodotti estratti. Ma ci sono anche ragioni indiscutibili: come la possibilità di far durare più a lungo i prodotti grazie un packaging adeguato. E discutibili ma comprensibili, come la mancanza di tempo da dedicare alla cura della quotidianità, che fa sì che ci si sia abituati a fare acquisti senza essere attrezzati (pensiamo alle borse per la spesa ai contenitori riutilizzabili) e, spesso, a preferire il cibo confezionato per questioni di praticità.
Eppure questo significa spreco di risorse e CO2 emessa e, spesso, per i cibi confezionati, sapori meno freschi e genuini.
Non è sempre stato così
Negli anni ’70 spesso la sera la mia famiglia ordinava la pizza dal lattaio – avamposto del multitasking – che ce la serviva su di un piatto di ceramica di sua proprietà. Io e le mie sorelle lo portavamo a casa con la pizza e lui ci pregava di riportargli il piatto. Anche birre e bevande prevedevano il ritorno del contenitore.
Oggi sembra inconcepibile, eppure la direzione della normativa internazionale e, in particolare, quella Europea, guarda al riuso del packaging, e dei contenitori del cibo e del beverage, come all’opzione migliore per ridurre da un lato l’ubiquità dell’inquinamento da rifiuti.
Lo stesso recepimento italiano della Single Plastic Use, la direttiva per il contrasto alla plastica monouso in vigore dal 3 luglio 2019, che prevedeva il recepimento da parte dei diversi Stati membri entro il 3 luglio 2021, in corso di esame a Bruxelles, prevede un forte e significativo sostegno ai contenitori riutilizzabili.
Sull’onda di questa necessità ambientale e della direzione della normativa, sono nate tantissime iniziative locali per sperimentare circuiti di contenitori riutilizzabili.
In Gran Bretagna c’è Loop con un servizio di re-design per i produttori. In Austria e Germania Vytal offre contenitori riutilizzabili per bar e ristoranti alle catene dei delivery e a diversi altri soggetti e una app per segnalarne il passaggio di mano.
In Italia, a Milano, l’associazione Giacimenti Urbani, che presiedo, sta testando il modello reCircle.
Nato in Svizzera, conta oltre 1600 locali aderenti nel Paese d’origine e start-up in Belgio, Danimarca, Estonia, Germania, Olanda e Italia. A Milano, grazie al supporto del Bando Cariplo Plastic Challenge 2020 con il progetto Noplà AGain, riutilizzare è un vantaggio per tutti, abbiamo l’obiettivo di coinvolgere 40 locali tra bar e ristoranti che fanno take-away, dotandoli di un kit di contenitori e bicchieri riutilizzabili reCircle da dare su cauzione ai clienti. I contenitori e i bicchieri potranno essere resi all’interno del circuito.
Si tratta di cambiare non solo lo stile di vita delle persone, ma anche l’organizzazione della filiera.
Per questo motivo, per facilitare la sinergia, tra i diversi portatori d’interesse il 23 novembre alle h. 17:15 in occasione del Festival di Giacimenti Urbani, presso Cascina Cuccagna, viene presentato RiC, Resta in Circolo, un tavolo di lavoro per i soggetti interessati ad attivare la filiera del riutilizzabile – no-pla@giacimentiurbani.eu.
La speranza è Milano diventi la culla per la sperimentazione di circuiti di riutilizzo, così come sta avvenendo in alcune città della Germania, come Berlino, dove è vietato usare bicchieri e piatti usa e getta in bar e ristoranti e negli eventi. E in Portogallo, a Lisbona, dove grazie alla nascita del Portoguese Pact for Plastics, che coinvolge 50 soggetti, sono state attivati degli incentivi in due grandi catene di supermarket per incentivare i clienti che portano i propri contenitori per l’acquisto di cibo fresco.
Il vantaggio? Meno rifiuti da smaltire, meno CO2 emessa e meno costi da sostenere sul lungo periodo per i disposable.
Donatella Pavan, giornalista ambientale, fondatrice dell’associazione Giacimenti Urbani