Vivere senza spreco, eccesso o ridondanza, circondati da pochi oggetti utili, belli e carichi di senso. In tema di abitare, abbiamo molto da imparare dai nomadi

*Elena Dak, antropologa e scrittrice, ha passato 34 giorni camminando nel deserto del Tenéré, in Niger, con 300 dromedari e 30 Tuareg in una carovana del sale

 

L’estensione del concetto del nomadismo applicata a qualunque contesto professionale, umano, sociale è stantia e abusata. Ma soprattutto non ha nulla ha a che fare con la lezione del nomade, cioè del pastore che si vota al cammino.

La sua migrazione, transumanza e tutte le possibili modalità intermedie di cammino sono dettate da uno scopo preciso: trovare e sfruttare le scarse risorse, erba e acqua, sparpagliate in un territorio vastissimo.

In questa esistenza c’è il tempo del movimento, necessario al procacciare il cibo per il gregge o la mandria. E c’è il tempo della sosta, per recuperare le forze prima di riprendere il cammino.

Creare un accampamento temporaneo, erigendo architetture leggere, trasportabili, smontabili eppure accoglienti è un talento quanto lo è la capacità di attraversare lo spazio annusandolo, ponendosi in ascolto dei sottili segnali che esso trasmette.

Il costante esporsi del nomade all’aridità desertica, o stepposa, fa sorgere in lui la necessità, assoluta ma gestita con grazia e autocontrollo, di dar forma in pochi minuti a un nido che ricava, nelle vastità, un luogo al riparo dal vento, dal freddo, o dal sole cocente. Uno spazio domestico che in qualche caso si risolve in una semplice stuoia o una coperta.

Nel nuovo perimetro domestico che il nomade prende in prestito dall’ambiente allestisce i pochissimi oggetti che porta con sé. L’essenziale che arreda l’interno è il riflesso del vuoto dell’ambiente esterno e un’esigenza imposta dal dover trasportare e caricare tutto ciò che egli possiede sugli animali.

Questo processo di trasformazione dello spazio desertico, o comunque naturale, in casa’ avviene in pochi istanti e poi è il tempo del riposo, durante il quale rifocillarsi e ristorarsi. Quando un nomade Tuareg si siede sulla sabbia e dispone a terra il corredo per preparare il tè e accende con pochi legnetti il fuoco ha chiesto ospitalità al deserto, ne ha sottratto una porzione per sé col consenso del luogo e, in pochi minuti, si sente a suo agio e si concede l’attesa, l’immobilità, il silenzio.

Non esiste eccesso, spreco, ridondanza nella vita del nomade che si arma anche di una gestualità consona a toccare gli oggetti del quotidiano con delicatezza.

Quegli oggetti vivono in migrazione e passano il tempo in movimento oscillando talvolta o rintanati accuratamente dentro sacche di cuoio o tessuto se fragili. Partecipano del ritmo del passo animale. Gli oggetti che accompagnano il nomade prendono vita e valore attraverso la cura che viene dalle mani dell’uomo e dalla loro posizione su terreni o sabbie sempre nuove. Diventano importanti attraverso la relazione con la polvere con cui convivono, la sabbia dentro cui vengono spinti per avere stabilità o il ramo da cui pendono, le gocce di latte che ne intridono le fibre, o dall’essere sfiorati e rovesciati continuamente dalle zampe degli animali.

Tutto ciò che egli possiede serve – deve servire – a qualcosa, spesso a più cose. Nel mondo nomade tutto deve e può essere bello: non costoso, ma esteticamente curato, decorato, gratificante per lo sguardo, che, seppure abituato ai grandi spazi, sa posarsi anche sui dettagli con spirito di osservazione.

Per comprendere le leggi del deserto e dell’infinitamente grande, infatti, bisogna saper leggere l’infinitamente piccolo, e uno sguardo allenato a guardare lontano è addestrato a percepire con lo stesso acume il minimo oggetto vicino.

L’insegnamento che ci viene dalla cultura nomade, in tema di abitare, ha dunque molto a che fare con il modo in cui viviamo. Ci dice che, nella vita, i silenzi contano quanto le parole e i vuoti quanto i pieni; mentre nella casa effimera del nomade tutto partecipa del movimento. Essenziale non vuol dire spoglio e nemmeno freddo. Il semplice non è mai banale e la bellezza lascia il proprio segno anche sul cucchiaio di legno usato dal pastore mongolo per schizzare di latte l’erba e benedire il cammino.