Ripetitività di format e mancanza di atmosfera stanno uccidendo l’architettura, rendendola noiosissima. E la colpa non è solo di un sistema che privilegia il guadagno a breve termine ma anche degli architetti, che non sanno divertirsi

*Italo Rota, architetto

La noia che impera nell’architettura contemporanea ha due facce. La prima è quella della ripetitività. Un tempo era quella delle forme, ora è la ripetitività dei format ma il risultato non cambia. Anzi, è peggio. Perché l’apparente differenza dell’estetica nasconde un’uguaglianza sostanziale. Cosa vuol dire? Che quando entriamo in uno spazio l’organizzazione spaziale è sempre la stessa: sappiamo cosa troveremo, cosa ci succederà, è ovvio che a un certo punto troveremo un giardinetto e che qualunque problematica avremo nell’interazione con quello che ci circonda verrà risolto in modo immediato. La noia dell’architettura diventa quindi noia dell’esperienza, di cui siamo tutti vittime nostro malgrado. Spesso, senza accorgerci, mentre scivoliamo in un piattume senza curiosità vera.

La seconda faccia della noia in architettura è quella dell’atmosfera. Cioè della mancanza della stessa. E il motivo è semplice: le atmosfere nascono là dove ci sono storie e al momento di storie belle da raccontare l’architettura non ne ha nemmeno una. Ce l’hanno invece spesso i negozi, per i quali narrare vuol dire vendere. E ce l’hanno tutte le produzioni cinematografiche o televisive: a tal punto che mi chiedo se non saranno i registi i nuovi architetti del contemporaneo. Perché la fame di storie (e di atmosfere) è fortissima e per crearle bisogna capire la gente davvero.

Chi sentite più vicino? Qualcuno che, da dietro una cinepresa, vi accompagna dentro un percorso di emozioni facendovi attraversare spazio e tempo o chi suggerisce di andare a vivere nei borghi o di riprogettare le vostre case come ospedali? Se gli architetti oggi avessero davvero una connessione con la gente non direbbero sciocchezze del genere. Basta parlare col vostro vicino di casa per capirlo: nessuno vuole cancellare tutto con un colpo di spugna ma avere regole chiare su come affrontare con tenacia e ottimismo la fase dopo antivirus. Cioè risolvere il problema, non cambiare il luogo dove vive o spostarsi in campagna per timore di un virus. Queste sono, del resto, logiche che lascerebbero i più deboli al loro destino e che non tengono conto della storia che ci dice che dopo ogni epidemia (dalla febbre gialla alla tubercolosi) le città si sono espanse ed evolute. Non sono morte ma risorte. Non sono state abbandonate ma ripopolate.

L’architettura è quindi noiosa anche perché gli architetti sono diventati noiosi. Non si divertono e quindi non fanno divertire gli altri. Sono stati un po’ costretti a diventare così da un sistema che da decenni premia non l’investimento ma il profitto immediato, non la creatività ma la standardizzazione. E ci si sono abituati (anche perché, diciamocelo, così si fa meno fatica). Però la nuova generazione – che è sorprendentemente molto ben preparata – si trova impaurita a partecipare a concorsi dove a vincere è sempre “un altro” di qualcosa che già esiste…

E allora cosa possiamo fare?

Tornare a divertirci. A esplorare. A tentare vie diverse per fare le cose. A osservare il mondo e le persone con curiosità vera, senza saccenza precostituita. Ci sono anche oggi architetti che lo fanno, penso a Jean Nouvel. Di cui non condivido il pensiero ma apprezzo il desiderio di rimettersi continuamente in gioco e trovare soluzioni alternative alle problematiche di oggi. Per fare solo un esempio, se pensiamo in termini di materiali – da quelli realizzati con le nano tecnologie a quelli prodotti utilizzando batteri o elementi di trasformazioni dati da esseri viventi – per fare le cose in modo diverso dobbiamo solo usare un futuro che già esiste. Abbiamo una quantità enorme di futuro che non utilizziamo, quello che ci manca è ritrovare la libido dell’immaginazione e creatività. E, certo, la colpa è stata originariamente del sistema. Ma in fondo anche di chi ci si è adagiato dentro come in un cocoon

Abbiamo una quantità enorme di futuro che non utilizziamo"

In apertura, opera di Maurizio Cattelan del 2002, parte di Viaggi da camera’, il progetto online della Fondazione Nicola Trussardi che per 67 giorni, dal 27 marzo al 1 giugno 2020, ha raccolto e distribuito quotidianamente immagini, video e testi, scelti da artisti italiani, invitati a raccontare il proprio spazio domestico e i loro viaggi immaginari durante il lockdown.