Aprire la Design Week con progetti la cui forza creativa nasce dall'affetto rinfresca lo sguardo sul senso del design

Sono le 10 meno 10 di venerdì 12 aprile e Vito Nesta si aggira nell’installazione Nella pancia del guerriero che ha realizzato con la curatela di Sara Ricciardi in occasione della presentazione della collezione disegnata con Alessandro Guerriero. È visibilmente emozionato. Perché lui, Guerriero, arriva alle 10 e non ha alcuna di idea di cosa troverà.

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Può sembrare strano: due designer-artisti realizzano degli oggetti insieme e poi uno non ha nemmeno la più pallida idea di come l’altro li esporrà?

È strano, sì, ma anche molto bello.

Perché l’installazione è una specie di sorpresa.

Ha la forma di una scatola aperta ai lati, tutta rosa ma vuole essere una "pancia", nel senso anglosassone del termine. Il "gut" è quello che ci portiamo dentro. E questa è, come recita il titolo, "la pancia del Guerriero" perché è riempita a dismisura di sculture, miniature di opere, richiami visivi al lavoro di Alessandro.

Un dono che Vito Nesta, con la complicità Sara Ricciardi e l'aiuto della piccola amica Demetra, una bambina delle scuole elementari che ha realizzato tanti dei disegni alle pareti, ha deciso di fare a un autore che rispetta ma soprattutto a una persona per cui, è evidente, prova un affetto profondo.

Leggi: Alessandro Guerriero, la bellezza della fragilità e di un mondo senza soldi

Basta soffermarsi sui dettagli esposti per capire che non siamo di fronte alla classica (e tipica) “glorificazione del maestro” ma a qualcosa di profondamente diverso.

Tutte le scritte, fatte a mano in stile street writer, sono considerazioni di Guerriero o riferimenti alla vita e al pensiero di Guerriero e soprattutto a persone, situazioni o momenti che sono stati importanti per lui: ci sono i colleghi che se ne sono andati (Mendini, Branzi, Pesce, Rota), i detenuti dei vari carceri in cui ha lavorato, gli studenti delle scuole e non-scuole che ha fondato, i fragili a cui ha sempre dedicato tanto tempo ed energie. In un angolo, a terra, una montagna di pezzi di carta appallottolati che riportano considerazioni su progetti mai realizzati.

La scatola rosa è insomma una specie di inno all’esplosiva creatività di un uomo che l’ha saputa usare per fare star bene e far crescere gli altri.

Sono le dieci e Alessandro Guerriero arriva.

Si guarda intorno stupito e sorride felice: quella strana casa o pancia rosa gli piace, gli parla.

Davvero apre il cuore, in un momento storico come questo, fatto di polarizzazioni e velocità, di opportunismo e storytelling per vendere, vivere un attimo così.

Perché ricorda che far nascere un progetto da una dimensione e saperla renderla universale, cioè percepibile anche a chi rimane fuori dall’affinità elettiva che lo anima, è quello che dà gli dà un senso.

Che il design – quello bello, di significato, quello che è progetto e non marketing – nasce quando c’è amore e rispetto. Un concetto che ritrovo poco dopo, del tutto inaspettatamente, alla Triennale.

Walking sticks and canes

“Il design viene bene quando si progetta pensando intensamente a qualcuno”, mi ha detto solo qualche ora dopo Keiji Takeuchi, curatore della piccola, deliziosa mostra collettiva alla Triennale Walking Sticks and Canes che apre al pubblico il 15 aprile.

 

Keiji Takeuchi e altri 17 designer hanno disegnato dei bastoni da passeggio per cambiare l’immagine e il modo di vivere questo oggetto, oggi simbolo di vecchiaia, e regalare una piccola felicità a chi lo usa per spostarsi.

Basta osservare questi bastoni e scoprire le storie da cui nascono per capire che sono tutti figli dell’ affetto: per i nonni, i genitori, anche se stessi in un futuro più o meno lontano.

C’è quello per camminare sui terreni accidentati per gli amanti dell’outdoor, quello da appendere al tavolo per chi non rinuncerà mai al ristorantino con gli amici, quello extra light per gli amanti del tech, quello con l’impugnatura da scolpire per i più creativi.

Non c’è produzione o scopo commerciale in Walking Sticks and Canes. Persino lo sponsor Karimokou non è di quelli “urlanti” ma ha silenziosamente ed elegantemente supportato il lavoro dei designer (e proprio per questo viene voglia di citarlo in un testo come questo).

Voler dare qualcosa a qualcuno con il nostro lavoro, solo per il piacere di farlo, è la parte più bella del design”, dice Keiji Takeuchi.

Un concetto che sarà bello portarsi dentro in questa Milano Design Week che si apre.