Non sembri blasfemo ed eccessivo il paragone tra distretti e chiese, tra smart working e messe online evocate in un articolo su Avvenire che richiama il pericolo di una fede disincarnata, senza sacro, direbbe Rampello, di una comunità soltanto virtuale. Non amo né i predicatori dell’etere senza chiesa né i creativi da storytelling che fanno community senza comunità. Per rifare soglia nella comunità che viene, per ritrovare nella giusta distanza l’intimità dei nessi, occorre mettersi in mezzo tra analogici e digitali, tra fisico e immateriale, tra universale e locale. È una soglia da ricostruire facendo comunità di cura altra dalla comunità del rancore alimentata sia dai leoni di tastiera sia dai tanti nostalgici del com’era che, individualisti proprietari di un’identità senza relazione, diventano cattivi, cioè prigionieri di sé stessi. Per questo occorre, partendo dalla comunità di cura del corpo a cui ci affidiamo per curarci, fare comunità di cura larga e operosa.
Non sono un esperto di design, ma il disegnare spazi evoca, come scriveva Michel Foucault, una eterotopia: “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano”. Quindi un augurio per un Salone del Mobile eterotopico che partendo dalla comunità di cura disegni forme dell’abitare da comunità larga del saper fare e dell’abitare che verrà.