Per ripensare il grande evento internazionale del design occorre mettersi in mezzo tra analogico e digitale, fisico e immateriale, universale e locale. Le fabbriche saranno laboratori di nuove forme dei lavori e potranno rifondare la comunità del nostro fare impresa

Sarà dura riprenderci dall’apocalisse culturale che ci attanaglia e ci angoscia “quando non ci riconosciamo più in ciò che ci era abituale”. Ci eravamo appena abituati a metterci in mezzo ai flussi che impattano sul territorio. A confrontarci con la finanza, con le internet company, con le migrazioni che mutano la geografia dei luoghi, le antropologie dei lavori e del fare impresa. Noi, popolo dell’arredo con adattività tutta italica, lì in mezzo, avevamo creato uno spazio mediano per attrarre flussi di compratori e di messa in scena creativa del nostro saper fare, della nostra ‘artigiania’: il Salone del Mobile.

Ci è franata la terra sotto i piedi nella faglia profonda di Covid 19 che ha introdotto immunitas da distanza sociale nella communitas del nostro fare impresa, del nostro lavorare comunicando design e sogni dell’abitare. Faglia da evento tellurico nella sua immaterialità di interruzione eventologica del Salone del Mobile divenuto, nella sua abitualità il nostro metterci in mezzo ai flussi globali generando noi stessi, il flusso del Made in Italy. Siamo qui a pensare, ironia della lunga durata della storia, noi stessi relegati dentro casa, al come fare soglia, al come metterci sulla soglia dove si accoglie l’ospite e lo straniero invitandolo a visitare la casa. Ciò mi pare suggerisca questo numero di Interni, inducendoci ad andare oltre la faglia, oltre l’apocalisse culturale, per ricominciare a fare soglia di riflessione delle forme dell’abitare e del riandare nel mondo.

Ci pare dire, parafrasando Ernesto De Martino, che non è la fine del mondo ma certamente la fine di un mondo. Avere contezza del salto d’epoca, del rifare soglia dopo la faglia significa assumere una dimensione del tempo e dello spazio tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’, come l’angelo della storia di Benjamin che volge lo sguardo a ciò che non è più ma cammina verso il non ancora. A questo mi pare invitarci l’appello alla ripartenza dei leader di filiera del legno-arredo pubblicato da Interni. Siamo in questa torsione e, senza farci prendere dal rimpianto verso il com’era e dov’era, occorre pensare al come sarà e al dove sarà il Salone del Mobile che sarà. Per progettarlo e riviverlo occorre capire che non è più “quell’intimo dei nessi che induceva la coralità produttiva dei luoghi” raccontata dal cantore dei distretti Giacomo Becattini, dove si trasmettevano ‘bocca-orecchio’ i saperi contestuali memoria dell’’artigiania’. Che si è evoluto “rasoterra e dappertutto”, come scrive Giuseppe De Rita, in “localismi poliarchici” verso piattaforme produttive nella Brianza, nella Marca Trevigiana, nel Pesarese, solo per citare luoghi emblematici che alimentavano il Salone nella città infinita Milano, città anseatica degli scambi e della rappresentazione.

Per capire la discontinuità delle parole negate “intimo” e “rasoterra”, occorre ricollocare l’intimità dei nessi oggi necessari tra saperi contestuali e saperi formali. Ci aiuta in questo Stefano Micelli, già teorico della contaminazione tra manifattura e digitale nel passaggio alle stampanti 3D, e anche oggi nello scomporre e ricomporre lo smart working. Ne discutiamo spesso, con l’avvertenza socio-antropologica di non perdere in questo sollevarsi dal mondo la voglia di comunità (Baumann) con le parole che volano, perché i corpi non volano e anche le fabbriche e i boschi non volano. Per questo credo che le imprese di filiera propongono per ripartire la giusta distanza e il loro posizionamento ai margini della città infinita che le rende laboratori di nuove forme dei lavori, con smanettoni della rete e artigiani in empatia operosa.

Non sembri blasfemo ed eccessivo il paragone tra distretti e chiese, tra smart working e messe online evocate in un articolo su Avvenire che richiama il pericolo di una fede disincarnata, senza sacro, direbbe Rampello, di una comunità soltanto virtuale. Non amo né i predicatori dell’etere senza chiesa né i creativi da storytelling che fanno community senza comunità. Per rifare soglia nella comunità che viene, per ritrovare nella giusta distanza l’intimità dei nessi, occorre mettersi in mezzo tra analogici e digitali, tra fisico e immateriale, tra universale e locale. È una soglia da ricostruire facendo comunità di cura altra dalla comunità del rancore alimentata sia dai leoni di tastiera sia dai tanti nostalgici del com’era che, individualisti proprietari di un’identità senza relazione, diventano cattivi, cioè prigionieri di sé stessi. Per questo occorre, partendo dalla comunità di cura del corpo a cui ci affidiamo per curarci, fare comunità di cura larga e operosa.

Non sono un esperto di design, ma il disegnare spazi evoca, come scriveva Michel Foucault, una eterotopia: “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano”. Quindi un augurio per un Salone del Mobile eterotopico che partendo dalla comunità di cura disegni forme dell’abitare da comunità larga del saper fare e dell’abitare che verrà.

 

 

In apertura, una fotografia del trittico Le piccole cose’ di Giorgia Bellotti - Giorgibel.