Con Clubhouse è stato amore a prima vista. Reciproco: in pochi giorni il social dove contano solo le cose di cui si parla mi ha portata da zero a 5000 follower. Ma quanto durerà la luna di miele?

* Bianca Del Balzo, Head of Operations and Social di Will Media, campionessa di pallamano nella nazionale italiana

Da nerd dei social che sono, quando ho saputo dell’esistenza di Clubhouse il mio primo pensiero è stato: entrarci subito. Un social in cui conta solo la voce mi è sembrata infatti un’idea straordinaria, un modo per dare spazio a mondi in cui il contenuto conta più dell’estetica e a persone che, come me, hanno sempre avuto la fobia di parlare davanti a un grande pubblico (lo ho fatto solo una volta, davanti a 500 bambini delle medie, per raccontare quanto è bello lo sport che pratico in nazionale, la pallamano. Giocavo in casa ma avevo i nervi a fior di pelle).

Tra me e Clubhouse è stato quindi amore a prima vista. E dopo cinque giorni immersa in una passione che durava gran parte del giorno e della notte, mi sono accorta di avere 5000 follower. Magia? No, Clubhouse è così. È un social in cui se parli di cose che alla gente interessano i follower crescono: senza foto, senza la possibilità di condividere nulla, senza messaggistica. Perché qui è il contenuto, e solo quello, a fare la parte del leone.

E ora, dopo il momento di grande passione, eccomi nel momento della riflessione, cioè a chiedermi se e quanto durerà.

Su Clubhouse si entra a invito oppure chiedendo accesso e aspettando che qualcuno lo conceda. Si scelgono aree di interesse e persone da seguire a cui corrispondono stanze di conversazione. In queste stanze succedono cose, cioè si parla secondo il principio della vita reale: chi c’è c’è, chi non c’è si è perso l’opportunità e tanto peggio per lui. Quindi se soffrite di FOMO (Fear Of Missing Out), andateci piano. Perché Clubhouse potrebbe provocarvi un’angoscia (per stare su un tema caro al mondo del design) come quella da FuoriSalone quando si corre impazziti da un evento all’altro per non perderne nessuno. Eccitante ma anche sfinente.

Il fatto è che su Clubhouse di cose interessanti ce ne sono tantissime. Non essendoci ancora una ressa ma tante persone che condividono uno stesso interesse è il palcoscenico ideale per fare networking e condividere idee, imparare cose, confrontarsi con gli altri. A tal punto che adesso passo le prime due ore del mattino con Clubhouse acceso, nelle stanze in cui c’è la rassegna stampa o in cui altri nerd come ma parlano delle ultime trovate tech.

Su Clubhouse si parla soprattutto di Clubhouse: è nuovo e ci sta. Ma fanno la parte del leone anche la politica (in Agorà Politica si scontrano parlamentari, politici e giornalisti ogni giorno), i social, la tecnologia, la comunicazione. E a breve immagino si parlerà di tutto. C’è persino la stanza senza tematica (Caffè e Argomento) dove si entra e si decide: talvolta va bene, altre no. Ci sono stanze dedicate alle opportunità di lavoro per i giovani, al turismo, ai commenti live sulle partite di calcio, alle radiocronache ironica del Grande Fratello Vip.

Un format particolarmente vibrante è quello delle Q&A: io ne ho organizzata una insieme a Yari Brugnoni, il founder di Ninjalitics, Luca Mastella di Learnn e docente Bocconi, Marco Onorato, co-founder di Marketing Espresso, e con il founder (Steven Lo Presi) e il responsabile SEO (Luigi Nigro) di Marketing Ignorante.

Il pubblico ci poneva domande su come lavorare sui social e noi rispondevamo, ciascuno secondo le sue aree di competenza.

Clubhouse è, insomma, il paradiso del networking: il luogo perfetto per incontrare gente con cui parlare delle cose che ti ossessionano o appassionano. Per imparare e crescere dialogando. Il luogo dove per diventare influencer non bisogna essere celebrity di serie B nate su programmi televisivi spazzatura: serve avere voglia di ascoltare e raccontare qualcosa che sia rilevante per chi a sua volta ci ascolta.

È un mio modo di dire che questo amore per Clubhouse è per sempre? Non ancora. Perché a due settimane dal primo incontro e dallo sbocciare della passione riesco anche a vedere, di fianco alle rose, le prime spine.

La prima è insita nel successo di Clubhouse. Mi è già accaduto, per esempio, di entrare in una stanza e voler dire la mia trovandomi però in ‘coda’, con 15 persone prenotate per parlare prima di me. Non è bellissimo. Cosa succederà quando la piattaforma sarà disponibile anche per Android (ora lo è solo per iOS) e quindi aperta a un pubblico decisamente più ampio? Il limite di 5000 persone per stanza ha un senso in un social in cui il bello è ascoltare ma anche parlare e confrontarsi?

La seconda ha che fare con il tempo. Per usare Clubhouse bene ne serve tanto. Non è come Instagram, dove si scrolla e si coglie subito il senso delle cose. Per capire di cosa si sta parlando in una stanza e formulare un pensiero a proposito del soggetto in essere bisogna ingaggiare il cervello. È il bello di questo social ma anche il suo limite: per esempio per chi lavora e non ha ore a disposizione per fare una ginnastica intellettuale quotidiana.

Non è ancora chiaro se e come gli sviluppatori risponderanno a queste sfide. Né cosa potrebbe accadere se – come già è avvenuto con Snapchat e come sta tentando di fare con TikTokFacebook risponderà al successo di Clubhouse copiando il format per abbatterlo sul nascere (pare stia già per succedere: qui l'articolo sul New York Times).

Resta il fatto che il nuovo social della voce è, finalmente, una piattaforma meritocratica, una specie di rivincita per chi ha qualcosa da dire ma detesta mettersi in mostra. E quindi un terreno almeno da esplorare, ora, subito e con la dedizione che merita.

 

In apertura, un disegno/collage con animazione multimediale del progetto di comunicazione Area41 di 41zero42, realizzato da DWA Design Studio in collaborazione con Karmachina