C’è stato un momento storico in cui dire qualcosa sull’ambiente era meglio che non dire nulla. Quel momento è finito. Ora, prima di comunicare, è fondamentale poter sostenere i propri green claims con dati scientifici a fronte di un pubblico sempre più informato e agguerrito sul tema

* Michela Melis, ricercatrice Green Bocconi, senior consultant Ergo, co-autrice di Oltre il greenwashing, Edizioni Ambiente, 2020

Sono anni che si parla di greenwashing, informazioni ingannevoli, scientificamente incorrette o non verificabili sul proprio impegno ambientale comunicate urbi et orbi per ottenere un vantaggio commerciale o di posizionamento di marchio. Mai come ora, però, ricorrere a questo genere di strategia è  una scelta davvero pericolosa, in grado di danneggiare un’impresa. Il momento però è finalmente venuto: il greenwashing non è più una strada percorribile, per nessuno.

Prima di capire il perché di questo passaggio, è bene però chiarire cosa sia il greenwashing.

Greenwashing è tutto ciò che l’azienda fa per portare il consumatore a pensare che un prodotto abbia un impatto ambientale ridotto senza però poter fornire dati scientifici a supporto. È greenwashing dare a intendere che un ingrediente naturale sia necessariamente meno impattante di uno sintetico, ricorrere in modo semplicistico e senza spiegazioni a termini e suffissi come bio, a impatto zero, eco, green, usare grafiche che imitano le certificazioni ufficiali. In generale: fare affermazioni non supportate da fatti verificati e verificabili.

Tante aziende sono ricorse ad espedienti del genere: talvolta appositamente ma spesso solo per ignoranza, superficialità o inconsapevolezza, agendo sotto la spinta dei competitor già in campo sulle tematiche legate alla sostenibilità.

La tentazione di ricorrere a questi  stratagemmi è ancora viva – soprattutto nelle imprese che si affacciano per la prima volta alla comunicazione green e che spesso non hanno  un dipartimento di comunicazione competente e dedicato – ma cedervi sarebbe un grave errore per svariate ragioni.

La prima è che se fino a pochi anni fa orientarsi su cosa dire e come dirlo, in tema di ambiente, non era facile, oggi esistono i mezzi per farlo. Ogni azienda può, usando per esempio strumenti di Life Cycle Assessment, quantificare l’effettivo impatto ambientale nell’intero ciclo di vita dei propri prodotti. E, solo dopo e in presenza di dati reali, decidere cosa, come e dove comunicare.

Leggi IDJ dedicato al Life Cycle

È, questo, l’unico vero modo per scendere in pista nell’arena della comunicazione sull’impatto ambientale. Perché è ormai cosa accertata da indagini e survey della Commissione Europea che, in un contesto in cui tutti fanno ricorso a claim green, la mancanza di dati scientifici a supporto degli stessi genera immediato scetticismo, confusione e rifiuto da parte dei consumatori nei confronti dei marchi.

A questo rischio, già enorme perché amplificato attraverso i social, si aggiunge quello delle sanzioni. I green claims vuoti rovinano il mercato e vanificano l’effettivo impegno ambientale dei tanti che si stanno seriamente muovendo in questo senso e per questo sono entrati nel mirino di autorità pubbliche (come il Garante della concorrenza sul mercato, AGCM) e private (come l’Istituto per l’Autodisciplina Pubblicitaria, IAP). Mentre l’Unione Europea sta lavorando per arrivare a un metodo unico per il calcolo dell’impatto ambientale dei prodotti su tutto il territorio del continente con il fine di sgomberare il campo dalle troppe label e certificazioni che finiscono per confondere il consumatore e inficiare l’impegno verso un passaggio da un’economia lineare a una quanto più possibile circolare e sostenibile.

Cosa dovrebbero fare allora le aziende?

Su questo argomento ho scritto un libro, ci sono davvero tante cose da dire. Ma, in breve, le aziende devono prima di tutto analizzarsi: con l’aiuto degli esperti, valutare lo status quo e pensare a una strategia di miglioramento che a volte può non dare risultati  nell’immediato ma deve essere chiaramente definita. Solo allora, con una fotografia dell’attualità in mano e con un sogno nel cassetto, possono iniziare a raccontarsi. Se il racconto è ancora abbozzato, il sito aziendale può essere il luogo perfetto per avviare una discussione e formalizzare pubblicamente i propri impegni ambientali. Quando sarà più definito e supportato da fatti, allora si può scendere nell’arena dei social: sempre  evitando di andare oltre quanto è permesso dai fatti quantificabili scientificamente, coniugando fondatezza dei dati con attrattività e semplicità dei messaggi.

Un altro consiglio che mi sento di dare è non farsi travolgere dai fenomeni mediatici anti qualcosa’ e concentrarsi sul raccontare l’impatto ambientale nella sua totalità, evitando il riferimento a un materiale-nemico da eliminare per salvare il mondo. Penso per esempio al tema della plastica, che nel 2019 ha tenuto banco in modo assoluto: mentre chi conosce davvero le tematiche ambientali sa che non è un materiale da condannare tout court, così come che il ricorso alle bio-plastiche non è necessariamente un toccasana.

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Foto di apertura: Donatella Giuntoli, Natura, 1972 ca. Cinque teche di plexiglass, elementi in plastica, cubi in plexiglass di varie misure: 8,5x8,5x8,51 cm; 12,5x12,5x12,5 cm. Ph. Courtesy Collezione Massimiliano e Annalisa Vannucci, Pistoia. L'opera è esposta nell'ambito della mostra Pistoia Novecento. Sguardi sull’arte dal secondo dopoguerraFondazione Pistoia Musei - Palazzo de’ Rossi, Pistoia, dal 19 settembre 2020 al 22 agosto 2021.