Sono state il nostro rifugio, letteralmente, per mesi. Ci hanno confortati ma anche soffocati, asserragliati come eravamo tra le loro mura insormontabili. Come è cambiato il rapporto con la nostra casa durante il trauma psicologico che è stata la pandemia? Potremo mai tornare a guardarla con gli stessi occhi? E vogliamo davvero farlo o usare questa opportunità per iniziare una nuova relazione con il nostro spazio domestico?

* Ernestina Rossotto è psicologa e psicoterapeuta. Ha ideato lo Psico-Design che studia il rapporto tra persone, ambienti e oggetti. Il suo ultimo libro è Storie di tazzine, armadi e scarpe” (EBS Print)

La quarantena è stata lunga.

Per chi ha sempre considerato la casa come un luogo di passaggio tra un'attività e l'altra, fermarsi può essere difficile. Eppure in questi mesi molti hanno dovuto imparare a farlo e nel modo peggiore possibile. Cioè non per il tempo che desideravano ma per quello imposto dalle circostanze. Cosa è successo nel frattempo nel nostro rapporto con le nostre case? Per alcuni da luogo che accoglie e protegge la casa è diventata nemica, vissuta quasi come una prigione. Per altri, le abitazioni sono rimaste (o sono state scoperte) come rifugio, ristoro, luogo d’amore e convivialità. Eppure tutte queste persone hanno a loro tempo agognato di possedere o abitare una casa propria. La differenza è tutta in una parola: amore.

Se amiamo la nostra casa e ci prendiamo cura di lei, a sua volta lei amerà noi, prendendosi cura delle nostre autentiche necessità. L’obiettivo non è vivere in una casa perfetta per le riviste, ma perfetta per noi: per darci quello di cui abbiamo bisogno, quando ne abbiamo bisogno. Come una persona che amiamo e ci ama.

Per fare tutto ciò bene è utile pensare alla casa come una rete di relazioni.

La relazione con noi stessi in primis: per capirci ed esprimere le nostre emozioni, bisogni, necessità. E con le persone che condividono il nostro spazio vitale: perché abbiano consapevolezza di noi e di loro stessi e di cosa significano gli ambienti che condividiamo. E in ultimo con gli oggetti che sono spesso testimonial di qualcosa di più profondo della mera funzione o estetica.

Un cimelio di famiglia (il letto della madre, il comò della nonna, le fotografie degli avi) potrebbe per esempio indurre a discussioni: perché tenerlo? Piuttosto che arrampicarsi sui vetri adducendo a funzioni o prestazioni sostituibili meglio guardarsi dentro e capire cosa significa per noi. Se alcune presenze, legate a ricordi del passato, procurano dolore o fastidio, sarebbe conveniente toglierle dalla vista. Al contrario, se riportano in vita esperienze importanti devono restare (ed è bene condividerle). Potrebbe essere interessante fare un gioco: tutti i componenti della famiglia scelgono tre oggetti a cui sono particolarmente legati e tre che vorrebbero buttare, quindi espongono le loro motivazioni. Dal confronto può nascere una maggior conoscenza reciproca e una parziale “ristrutturazione” della casa. Non si può lasciare tutto immutato nel tempo, men che meno nella casa perché lei cambia con il cambiare delle nostre esigenze.

Se non si può sostituire un mobile, il semplice cambiare colore può contribuire a farci apparire la stanza più accogliente. Aggiungere dei cuscini sul divano o togliere delle mensole o dei complementi, sostituire un lampadario con uno nuovo cambia la percezione della casa e quindi la nostra relazione con lei, in quanto percepiremo l’ambiente più confortevole o gradevole. Noi dalla casa primordiale, ossia l’utero materno, dove tutti abbiamo abitato, dovremmo recuperare il senso di benessere, protezione e unicità, per poi tradurlo in oggetti, spazio e arredo.

Quando ci si accinge ad arredare casa si cercano consigli e spunti dalle riviste, dai professionisti e la fretta di arrivare ad una decisione o la mancanza di tempo ci possono spingere a soluzioni preconfezionate. È importante invece concentrarsi su ciò che ci piace, su che cosa vorremmo, su quali colori “stanno bene” con noi.

Creare una casa che stia bene con le nostre necessità significa sapere chi siamo e di che cosa abbiamo più bisogno. Ad esempio: preferiamo un terrazzo o un balcone dove coltivare fiori oppure un angolo dove leggere o scrivere o ascoltare musica? Cosa ci fa star bene? Qual è la nostra priorità?

Anche se non fa tendenza, possiamo inserire una poltrona che ci è cara. Se amiamo il colore viola, usiamolo. Se stiamo meglio nella penombra piuttosto che alla luce, oscuriamo gli ambienti.

Se c’è qualcosa di positivo di questa pandemia è la possibilità di confrontarci seriamente – quindi nella lunga durata, nel momento della difficoltà e del bisogno – con i nostri spazi abitativi. E con noi stessi nella nostra relazione con loro e con le persone e gli oggetti che li abitano insieme a noi.

Questo potrebbe essere quindi il momento migliore per guardare al nostro star bene in casa, apportando semplici ed economici cambiamenti ma vitali per il nostro benessere. Prendendo come spunto di partenza quello che davvero conta: il nostro amore per noi stessi, i nostri cari e la nostra casa.

Non sprechiamolo.


A Room in the Garden’ è un ambiente ottagonale multifunzionale. Progettato dallo Studio Ben Allen a Londra, si trasforma a seconda delle esigenze in studio, salotto, sala da giochi o camera da letto. Illuminato dalla luce proveniente da una grande finestra con vista sul giardino e da un lucernario centrale, è studiato per essere costruito, smontato e ricostruito altrove in modo semplice e veloce. 

 

In apertura la fotografia di Alessandro Furchino Capria @alessandrofurchinocapria che ha partecipato all'iniziativa benefica 100 Fotografi per Bergamo a sostegno del reparto di rianimazione e terapia intensiva dell'Ospedale Papa Giovanni XXII di Bergamo.