Cercare qualcosa – qualsiasi cosa – è il punto di partenza della meditazione. Ma il bello è perdere la via ed entrare in un luogo inaspettato. Ecco perché ha molto a che vedere con il design

*Andrea Maragno è fondatore dello studio JoeVelluto (con Sonia Tasca). È monaco Zen con il nome di pratica Eko e responsabile del Tempio Zen OraZen’ di Padova, fondato dal Maestro Tetsugen Serra nel 2017

 

Fino a 8 anni fa pensavo di non c’entrare nulla con la meditazione. Poi ho capito che quel non c’entrare nulla era simile a quello che ci lega a fegato, cuore, pensiero. Nel senso che non abbiamo un rapporto diretto, perché fanno parte di noi. Loro sono noi, ma noi non siamo loro. La stessa cosa succede con quella che chiamiamo meditazione.

Se dovessimo comporre la moodboard della meditazione, inseriremmo immagini come candele profumate, incenso, pantaloni oversize e parole chiave come mudra, mantra, ohm… Chi più ne ha più ne metta. È uno scenario che non mi è mai piaciuto, ma è quello dove per la prima volta ho sperimentato la meditazione. Per caso, invitato a trascorrere un’intera giornata in silenzio 24 ore prima di partire per il Salone del Mobile. Conoscendo bene i ritmi mi sono detto, perché no?

Indossando i miei morbidi pantaloni oversize ho iniziato a “meditare” secondo le indicazioni date: non fare nulla. “Ma come si fa a non fare nulla?” pensai. Esaurita la lista delle cose da mettere in valigia, la cena da preparare alla sera, la sequenza di appuntamenti. Poi iniziai a chiedermi cosa ci facessi lì. Dopo qualche ora, però, lasciata la presa (e dopo essermi detto “vabbè, visto che devo stare qui tutto il giorno…”), iniziai a percepire qualcosa di familiare. Quel qualcosa che ti fa sapere che quel fegato è tuo anche se non l’hai mai guardato negli occhi.

Ogni tanto, tra un pensiero e l’altro, comparivano percezioni di familiarità. Sensazioni fatte della stessa materia di quando a 5 anni osservavo la mia mano contro il sole e la vedevo tutta rosa, chiedendomi di cosa fossi fatto. O come quando nel garage di mio padre, a 6 anni, osservavo una pezza di pelle di daino che, seccandosi, aveva preso la forma del secchio su cui era stata appoggiata. Più avanti, negli anni, mi sarei chiesto se fosse un oggetto a memoria di forma o a forma di memoria... Era la stessa familiarità che si sente nel dolore, che mi ha squarciato quando ero un po’ più grande, o nell’immensa gioia di quando è nata la mia prima figlia.

È quella familiarità, con il suo senso di autenticità, che mi sono rimaste dentro dopo quel giorno.

Ed è allora che ho percepito qualcosa.

Non bisogna “sapere” meditare, non è un qualcosa legato alla conoscenza (e non è nemmeno un qualcosa). E il suo punto di partenza è la ricerca: di felicità, pacificazione, equilibrio, creatività, consapevolezza o qualsiasi altra cosa.

In questo senso, la meditazione assomiglia molto al lavoro di un designer o di qualsiasi creativo. Del resto come non ricordare Ettore Sottsass e il suo continuo tentativo di ricongiungersi con l’indefinibile mistero” ispirato dalla cultura Vedica? O Richard Sapper che indaga sulla “vita interiore” di un oggetto prima che si esprima in forma? O Dieter Rams e il suo “good design” fatto di “meno design possibile”. O Oliviero Toscani quando dice che la creatività non va cercata perché è una conseguenza (di cosa?).

Avere una motivazione iniziale e intraprendere questa ricerca è il punto di partenza. Ma attraverso di essa è molto probabile perdere il suo scopo per strada ed entrare in qualcos’altro. È da lì, non da teorie e tecniche, che “inizia” una vera e propria pratica. La meditazione è una delle pratiche dello Zen, che io ho scelto perché è una metodologia dello spirito aderente alla quotidianità, senza orpelli, diretta e profonda. Direi, in questo, senso, di grande rilevanza per chi progetta. La pratica Zen infatti espone i nostri sensi, aiutandoci a percepire ciò che è dentro e fuori di noi, annullando questa separazione e realizzando quella familiarità che è parte della nostra natura.

 

Nella foto di apertura: installazione Knight Rise’ ideata da James Turrell. Ph. Sean Deckert.