Dalla sostenibilità, vera o sbandierata, alla passione per gli oggetti come antidoto alla superficialità. In conversazione con l’industrial designer che progetta inseguendo l’intensità

Il bello di parlare con Odo Fioravanti è che si impara sempre qualcosa. Superare la già geniale cortina fumogena degli Haiku di design e inoltrarsi nel Fioravanti-pensiero significa andare sul sicuro: mai un’opinione a vanvera, approfondimenti e conoscenze enciclopediche dell’argomento di cui si parla. E la costruzione di nomenclature che non fanno sconti alla diplomazia. In questo caso l’argomento è la plastica.

Ho disegnato delle sedie di plastica, ne sono state vendute due milioni di pezzi. Ovviamente mi sono fatto delle domande, soprattutto dopo qualche critica secondo me mal indirizzata. La demonizzazione della plastica è un’operazione di semplificazione più o meno volontaria e pericolosa, che non serve a risolvere i problemi di sostenibilità o a diffondere informazioni corrette.

Partiamo dall’inizio: ha senso disegnare nuove sedie?

L’aggettivo nuovo mi preoccupa sempre, quando si parla di design. Il concetto di novità è pericoloso per la cultura del progetto. La domanda giusta è: come si disegna una bella sedia? Per quanto riguarda il senso del farlo, io non ho dubbi: è come chiedersi se val la pena di scrivere una poesia o girare un bel film. Ha senso perché abbiamo bisogno di altre poesie come abbiamo bisogno di altre sedie, per trasferire in esse lo spirito del nostro tempo. E nel farlo ci obblighiamo a darci tempo, a riflettere, a progettare in modo corretto oggetti che staranno per moltissimi anni nella casa delle persone. Il concetto di novità – oltre a non significare niente – è pericoloso proprio perché rende la rapidità implicita, sottintende un atteggiamento consumistico dannoso.

Il compito del design è quindi aiutare una relazione, un legame con gli oggetti per consumare meglio?

Il tema della sostenibilità è intimamente legato all’uso che si fa degli oggetti. Alla relazione fra esseri umani e cose. Quando mi dicono che un oggetto è “solo” bello, mi viene da rispondere: ma magari! Sarebbe già moltissimo. L’intensità di un bel oggetto e del lavoro fatto per disegnarlo è ciò che convincerà il suo proprietario a usarlo per decenni, a non buttarlo. Una bella sedia di plastica come la Selene è una garanzia di sostenibilità. Non c’è bisogno di produrla in materiali più sostenibili per renderla migliore dal punto di vista ecologico. Anzi: è un’operazione ipocrita. La strategia corretta è fatta di una “durabilità estetica” e meccanica e un pensiero sul fine vita. Poter disassemblare un mobile è un altro gesto progettuale che aumenta la sostenibilità.

Niente bio plastiche quindi? O plastiche recuperate a fine vita o da scarti industriali?

La plastica è un materiale di origine organica. Respira, assorbe acqua, si modifica nel tempo. Perde qualità estetiche e meccaniche a contatto con l’aria e gli agenti atmosferici. Per riciclarla post-uso occorre spesso aggiungere del materiale vergine. Non esistono sedie che hanno una vita infinita per il semplice motivo che la plastica non può essere riciclata all’infinito, semmai fosse davvero possibile e razionale farlo. Rientra fra quei materiali che rispondono alle leggi della chimica organica, come le piante, gli animali, gli esseri umani. Tutte cose che muoiono, finiscono.

Per buona pace di chi pensa che sia facile scegliere materiali naturali…

Quanto inquina un prodotto è legato a una serie di eventi. Se taglio un albero che produce un legno raro, come il wengé, il gesto che faccio è intimamente non sostenibile. Una sedia plastica è una ragazza semplice a paragone di un mobile shabby-chic, che però ha un aspetto molto più green.

Quindi come si fa a capire quando un prodotto è sostenibile?

Esistono processi sostenibili che nascono da un ragionamento su cosa cambia da prima che nasca un prodotto fino a quando non lo si usa più. Ed esiste una serietà di base nel cercare soluzioni. Pedrali ci ha messo qualche anno per trovare un vero polipropilene 100% riciclato: in parte riciclato dal post-consumo e in parte dallo scarto industriale. Il materiale oltre tutto non può essere colorato, perché altrimenti davvero non è più riciclabile. Quindi devo sapere che se voglio una sedia in plastica riciclata, probabilmente sarà grigia.

Le certificazioni sono utili?

In mancanza di leggi le certificazioni sono delle valutazioni fatte da organismi privati, che comunque procedono per paragone, nella migliore delle ipotesi. La valutazione della carbon footprint è lo strumento più efficace, perché ci dice sostanzialmente se stiamo inquinando un po’ meno dell’anno scorso, prendendo in considerazione ogni parte del ciclo di vita di un oggetto. Il resto ha poco valore e, quando si fa un po’ di ricerca ci si accorge che appena sotto la superficie c’è un circo poco serio. C’è una grande confusione di principi strumentale a una comunicazione di greenwashing.

 

 

In apertura e sopra, il processo di verniciatura della sedia Babila, disegnata da Odo Fioravanti, all'interno della Wood Division Pedrali a Manzano (Udine) dove vengono lavorati i prodotti realizzati in legno, tutti certificati FSC. Il processo è altamente automatizzato e l'energia impiegata è prodotta al 50% dai pannelli fotovoltaici della fabbrica. Pedrali ha installato un impianto robotizzato di verniciatura con prodotti all’acqua di origine vegetale che, nel garantire ottime qualità di resistenza e durata, limitano l’emissione di sostanze organiche volatili riducendo in modo sostanziale l’impatto ambientale negli spazi anche interni.