Il MACRO di Luca Lo Pinto è diventato un contenitore per le arti da seguire come si fa con un buon giornale: non sai che cosa troverai, ma sai che ti piacerà 

C’è un’emozione speciale che chiunque abbia lavorato anche solo un giorno nella redazione di un quotidiano ricorderà per sempre. È la gioia di “chiudere” il numero e mandarlo in stampa, con la presunzione di avere riassunto in quelle pagine un mondo certe volte, con un filo di sana arroganza, il mondo. Sapendo benissimo che dal giorno dopo nulla vale più, e che bisogna ricominciare daccapo.

Quell’emozione rivive chiarissima nelle parole di Luca Lo Pinto. Che non è un giornalista, ma il direttore artistico del MACRO, il Museo per l’Immaginazione Preventiva di Roma che, da quando questo trentanovenne cosmopolita ne ha raccolto la guida (dandogli quel nome), s’è trasformato in una sorta di magazine, sempre uguale e sempre diverso. Un palinsesto di iniziative, mostre, podcast, newsletter, talk e molto altro che sono come le rubriche di un settimanale: fidelizzano, appassionano, specchiano il pubblico sempre più giovane, peraltro in un contemporaneo filtrato da una continuità allo stesso tempo pensata e improvvisata, spesso sbarazzina ma sempre lungo il filo della coerenza tipico di un prodotto editoriale dall’identità chiara e forte

Chi ha visitato il MACRO in questi mesi è passato da una personale di Nathalie Du Pasquier (guarda qui) a una lecture di Timothy Morton. Ha ammirato Fore-edge Painting, la reinterpretazione contemporanea da parte di otto artisti dell’arte di decorare il taglio dei libri, ascoltato musica da camera, elettronica, podcast e ascoltato la playlist del museo su Spotify. Ma anche partecipato a festival lunghi 24 ore come quello del 23 ottobre in collaborazione con Terraforma che declina in più modalità “Il Pianeta come Festival” pubblicato da Ettore Sottsass su Casabella nel 1972. Un’avventura multidisciplinare in cui Lo Pinto porta anche l’esperienza di co-fondatore di un’eccellenza internazionale come la casa editrice Nero Editions.

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“Sicuramente l’esperienza di Nero ha influenzato questo approccio editoriale”, spiega. “L’idea di fondo era trovare una chiave, un modello alternativo di museo non soltanto sul piano concettuale, ma innanzitutto spaziale. Il MACRO è un’architettura disfunzionale, che ti obbliga a chiederti continuamente dove ti trovi, quale connessione c’è tra la sala da cui arrivi e quella verso cui ti stai dirigendo. Partendo proprio dall’osservazione degli spazi, sono arrivato all’idea di un magazine. Qualcosa, cioè, di sfogliabile, con una serialità, sezioni e rubriche. L’obiettivo era avere una griglia in cui allo stesso tempo poter improvvisare. Per assecondare al meglio la natura degli artisti, che non sono personalità lineari, ma in movimento e imprevedibili. Insomma, volevo un dispositivo vicino alle esigenze degli artisti, ma fuori formato. E che, cosa fondamentale, potesse dare spazio anche alla musica, al design e a tutte quelle discipline che spesso quando entrano in un museo si perdono per l’autoreferenzialità del museo stesso”. 

Anche dispositivo è una bella parola per definire un museo-interfaccia. 

Una mostra deve essere qualcosa che vive: la vedi l’ultimo giorno e non è più la stessa dell’apertura. In genere, nei musei tutto è permesso tranne l’improvvisazione, così una mostra finisce spesso per diventare una natura morta. Io ambisco ad altro. E in questo disegno mi ha paradossalmente aiutato la gratuità dell’ingresso. Uno sarebbe portato a pensare: se non posso far pagare, meglio puntare su poche iniziative. Invece, abbiamo moltiplicato mostre ed eventi, anche grazie a sponsorship, rivolgendoci a pubblici diversi, soprattutto a chi in un museo non va spesso o non ritorna fino all’inaugurazione successiva, ovvero dopo mesi. Al MACRO ci sono continuamente iniziative nuove. Come in un magazine, appunto.

Fiducia sembra l’altra parola chiave: senza fiducia, nessuno torna una seconda o una terza volta da nessuna parte.

Proprio così. Uno torna al MACRO con lo stesso approccio con cui acquista una rivista di musica e poi magari compra l’un per cento dei dischi recensiti, ma sa che tutti gli altri che sono stati scelti dalla redazione sono di qualità. In questa offerta, sta al pubblico trovare una linea e un filo. Vai al museo più per un’esperienza che per una singola mostra. Non sono per gli sguardi verticali. Non credo che in altri contesti, per esempio negli Stati Uniti, ci sarebbe l’opportunità di gestire un museo in questo modo.

Ovvero? 

Non necessariamente un museo deve indirizzare/indicizzare i gusti. Preferisco lavorare sui punti di vista: anche un edificio, se osservato di lato, diventa una linea. Con il progetto pensato per il MACRO non voglio creare un modello, piuttosto fare un esperimento. Devo dire che finora il riscontro del pubblico, in particolar modo quello giovane, ci sta dando ragione. Avvertiamo un’energia particolare. Il feeling è quello che percepisci quando parli al pubblico in prima persona, come facciamo per esempio con la newsletter. Questo ovviamente non vuol dire che tutti i musei ti debbano dare del tu...

Per tornare alla metafora editoriale, ha detto una volta che fare le mostre è come scrivere e che il momento più eccitante del suo lavoro è la costruzione. È quello che direbbe del proprio giornale un direttore.

È vero. Per me progettare una mostra è una forma di scrittura d’autore e insieme collettiva, pensata con gli artisti, per dare loro centralità e renderli davvero protagonisti. Il mio lavoro ha senso ed è bello se aggiunge. Non mi piace lavorare sulla maquette. Preferisco stratificare. Anche per questo ho voluto chiamare il MACRO Museo per l'Immaginazione Preventiva: non è soltanto un omaggio all’Ufficio per l’Immaginazione Preventiva istituito a Roma nel 1973 da Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano e Franco Falasca per un’arte capace di rivoluzionare la società, ma anche e soprattutto il voler mettere l’immaginazione al centro del dispositivo museale. In un momento storico in cui lo storytelling dell’arte è principalmente legato al mercato e al valore delle opere, la sfida del MACRO è lavorare più con le idee che con i soldi, viste anche le risorse limitate di cui disponiamo.

Il MACRO è un museo pubblico. Le istituzioni sono un vincolo per la creatività?

In questo caso i limiti sono di budget e di mandato: tre anni in tutto. Limiti che conoscevo quando ho partecipato al bando e che sto cercando di volgere in positivo. Della gratuità abbiamo detto. Anche il fatto di avere a disposizione tre anni è diventato un modo per mettersi in gioco subito: con un approccio tradizionale, ci avrei messo un anno e mezzo solo per capire come iniziare a muovermi. Invece ho optato per qualcosa che somigliasse a una mostra lunga tutti i trentasei mesi del mandato e in elaborazione continua. Se deve essere un fuoco d’artificio, allora, come tutti i fuochi d’artificio deve abbagliare e svanire, ma lasciandoti una memoria nella retina

Che cosa è l’underground, oggi, visto da uno che lo ospita in un museo pubblico? 

La distinzione tra underground e mainstream ormai è labilissima. Io credo che la vera differenza sia nel modo di abbracciare il primo. C’è chi lo fa in modo subdolo, edulcorandolo. E chi lo fa con rispetto. Da parte mia, non trovo differenze di valore tra la musica techno, il teatro off e una collezione d’arte permanente, inclusa quella del MACRO. C’è valore quando si creano ponti tra linguaggi sommersi, e lo si fa rispettandone l’identità e alle condizioni giuste.

 

Ph. Cover: Retrofuturo, Appunti per una collezione. Museo per l’Immaginazione Preventiva, MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, 2021. Ph. Agnese Bedini e Melania Dalle Grave - DSL Studio.