“Personalmente, è un po’ che sto a guardare, ma senza veramente riuscire a partecipare alle cose. Non so, c’è qualcosa che non mi torna. A differenza di molti altri, trovo che l’idea di ricominciare da dove c’eravamo interrotti non sia affatto così attraente; spesso mi sembra, semplicemente, impraticabile; talvolta, scema”, scrive Alessandro Baricco in un articolo sul Post. “È successo qualcosa, nel frattempo, e se dovessi dire perché me ne accorgo, non saprei farlo altrimenti che registrando una sensazione che non mi molla più: sembra tutto così vecchio. Tutto quello che ricominciamo sembra vecchio, è meno di quello che istintivamente mi aspetto, è in ritardo sui miei desideri”.
Forse non ci stiamo facendo troppo caso, ma cominciamo a ricordare. È un buon segno, perché riattivare la memoria vuol dire anche prendere distanza, e avere il tempo di coltivare l’idea che tempi migliori stanno arrivando. Fare una ricognizione dei segni lasciati dalla pandemia. Non i segni visibili, quelli invisibili, quelli che non si ha mai il tempo o la voglia di andare a vedere, ma che per la sanità mentale collettiva invece sono fondamentali. Sono le cicatrici emotive, irrazionali. Sono le strategie inventate per far fronte al primo vero trauma collettivo del secolo.
Memorie dal lockdown sono i 100 piatti decorati da Vito Nesta durante il primo confinamento, ora oggetto della mostra Diario di un designer. Sessantanove giorni nel segno di Vito Nesta, fino al 26 settembre al Palazzo Reale di Genova. La mostra, curata e fortissimamente voluta da Alessandro Valenti e Luca Parodi, è un inno alla memoria come spazio terapeutico universale.
I piatti di una grande tavola apparecchiata nella Galleria degli Specchi sono la tela su cui il designer costruisce un racconto, un’incursione continua e ipnotica in un immaginario iconografico d’antan, cadenzato dai paesaggi di cortili, pattern di finestre e facciate, di davanzali e terrazzi. Panorami della reclusione, quando guardare fuori dalla finestra era un’attività malinconica e stranamente seducente.
C’anche l’esotico, il lontano e il remoto, nel lavoro di Nesta. Nostalgia per il viaggio, per atmosfere non domestiche che qui sono richiamate al presente con immagini novecentesche, in un’idea surreale e manipolata della distanza.
Vito Nesta durante racconta che da bambino aveva un patto con le sue zie: le fotografie di famiglia in cambio di piccole commissioni. Dentro a questo strano scambio c’è già tutto il lavoro del designer sul valore del ricordo, della citazione, del racconto inteso come perdurare della memoria e non come invenzione.
Incredibilmente fortunata quindi la scelta di Palazzo Reale a Genova, un luogo fuori dallo scorrere dei giorni, immobile come lo sono i ricordi. La sala del trono, le camere, le anticamere, le stanze, i saloni… Vito Nesta lascia segni ovunque, design contemporaneo che dialoga amabilmente con un tempo svanito, irreale, lontanissimo. E per questo tanto importante.
L’antropologo Matteo Meschiari nei giorni del lockdown ha lanciato una open call digitale chiamata Draumar, l’antropocene dei sogni. L’invito a raccogliere i sogni fatti durante il lockdown per coltivare un serbatoio di memorie subconscie che narrano liberamente dell’esperienza traumatica della pandemia. Non è la prima volta che si tenta un esperimento del genere e Meschiari attinge alle esperienze del nazismo, nei taccuini dei sogni di Schnitzler, nelle cronache di Procopio di Cesarea. I sogni arrivano per informarci e per aprire la strada all’arte, all’ironia, alla sacralizzazione della memoria.
Leggi qui perchè secondo Matteo Meschiari immaginare è evolvere
La designer londinese Freyja Sewell, durante il lockdown del 2020, ha creato una serie di maschere con oggetti comuni, trovati in casa. La sua idea era di celebrare i key workers, quei lavoratori che durante la pandemia hanno continuato a uscire di casa per garantire i servizi di base. Ne sono nate undici immagini bellissime, delle icone sacre in un tempo magro di bellezza e di ispirazione.
Fra spiritualità e science fiction i sogni di Sewell hanno dato vita a un empireo di nuovi santi con mascherina, evocando bellezza in quella che in realtà era missione pericolosa, volontaria e umile.
Il volto nascosto e protetto di milioni di esseri umani è l’immagine monumentale della pandemia. È comparso nel marzo del 2020, è stato obiettivo di progetti di design diy, semplici e intelligenti. È diventato oggetto dell’ortodossia quotidiana. È già arte, design, fotografia. Presto troveremo anche le parole per parlarne, per ora è bello sapere che la memoria è fatta di immagini.