Stefano Marzano, ceo di Philips Design per vent’anni e ora alla Sapienza di Roma: “Dobbiamo progettare il risk management dell’innovazione”

Stefano Marzano è una leggenda del design internazionale. Per vent’anni ceo di Philips design, è un uomo che per mestiere ha inventato molti pezzi del nostro presente tecnologico. Lo ha fatto creando visioni, scandagliando tecnologie e animo umano in ugual misura. "Se ripenso a come abbiamo immaginato l’innovazione negli anni passati, vedo molto entusiasmo, molta fiducia".

Un ottimismo che Stefano Marzano a questo punto della storia comincia a considerare ingenuo: "Non abbiamo mai pensato, neanche per un attimo, che la tecnologia potesse essere usata male o che ci avrebbe portato, fra le altre cose, alla crisi climatica". L’antidoto contro l’ingenuità, da buon designer, è la ricerca.

Non più all'interno di un’azienda, ma all’Università La Sapienza di Roma, da cui nel 2018 Marzano ha ricevuto una laurea Honoris Causa in Design. Da qui nasce la proposta di Biovision of the Future, una tavola rotonda interdisciplinare insieme a Saperi&Co, l’hub dei laboratori di ricerca de La Sapienza.

Cos’è Biovision of the Future?

L’anno passato Sabrina Lucibello, direttrice del laboratorio Saperi&Co, mi ha contattato per fare da mentore a Carmen Rotondi, una studentessa PhD in Bio Design. La sua ricerca si occupa di progettazione di biomateriali e biotecnologie: è venuto spontaneo ragionare sulle implicazioni etiche di una tecnologia che funziona a tutti gli effetti come un essere vivente.

La visione attuale definisce tutto lo sviluppo delle tecnologie biologiche fino ad arrivare al transumano. Occorre un’introduzione sul tema etico morale che questo sviluppo sicuramente solleverà.

Ho proposto quindi una tavola rotonda con diverse discipline (filosofia, sociologia, economia, tecnologia e una figura spirituale) per confrontarsi con tre grandi poteri: economico (che attraverso gli investimenti decide cosa ricercare), politico (che regolamenta lo sviluppo e indirizza la parte legale), spirituale (che ha grande influenza sulla sensibilità etica e morale).

Lei parla di un futuro sostenibile, ma anche desiderabile. Cosa intende?

Questo incontro si è articolato nel mese di dicembre 2021 e da questo incontro si è aperto un dibattito. La cosa positiva è stata la partecipazione delle diverse facoltà, che ha stimolato un workshop che coinvolge tutti gli studenti phd dell'università sul tema del futuro dell’innovazione.

Non possiamo continuare a ignorare il lato negativo della ricerca scientifica e tecnologica, che normalmente riguarda l’uso che gli uomini ne fanno. All’idea di progresso abbiamo fino a ora associato anche l’idea di evoluzione umana, di miglioramento. In realtà dalla Rivoluzione Industriale a oggi abbiamo risolto tanti problemi quanti ne abbiamo creati.

Sia dal punto di vista ambientale, ma anche dal punto di vista criminale. La somma ha costruito un presente in cui assistiamo a comportamenti a dir poco antisociali, che frenano la possibilità di lavorare seriamente alla ricerca e alla costruzione di alternative risanatrici.

Questo può essere evitato indirizzandosi verso una maggiore consapevolezza etica. Includendo gli scenari negativi, oltre a quelli positivi, di ogni sviluppo scientifico. Questo per costruire una cultura della prevenzione condivisa dai diversi ambiti umani, di ricerca ma anche di etica, di spiritualità, di politica e di giustizia. È un’operazione innanzitutto culturale che implica il farsi carico della responsabilità degli scenari futuri.

Un risk management globale, non solo economico?

Non ho l'ambizione di risolvere qualsiasi problema. Ma di poter contribuire alla prevenzione dell’indesiderabile. Un mindset che ci aiuta a costruire strumenti di riparazione insieme a quelli di progresso.

Credo che la soluzione sia andare verso la verifica costante dei processi di innovazione attraverso una serie di leggi e di azioni preventive che regolano l'innovazione. Si tratta di adottare una cultura del risk management nell’innovazione.

Necessità di riparare e di non cadere in altre tentazioni entusiastiche quindi?

È impossibile prevedere tutto e impedire le ricadute negative, ma cominciare a prendere in considerazione i rischi è fondamentale per illuminare le parti meno positive della ricerca. La nostra insipienza ha creato delle realtà indesiderate, pesando moltissimo sull’economia mondiale, sulla qualità della vita, penalizzando le popolazioni e le possibilità di poter beneficiare all’evoluzione.

Il futuro desiderabile è un futuro in cui i rischi devono essere minimizzati e per questo occorre adottare atteggiamenti più maturi, come già è accaduto in campo medico.

Qual è il ruolo della ricerca accademica?

Mi auguro che si possa arrivare a formare dei professionisti più maturi e consapevoli in tutti gli ambiti che riguardano la progettazione del futuro. L'università è l'humus ideale per cominciare a farlo rapidamente.

Ed è inoltre il luogo istituzionale che più ha capacità di dialogare con i macro poteri politici e legislativi che hanno davvero la possibilità, benché siano in grave ritardo, di impattare sulle scelte. Ecco perché è importante la presenza della più grande università di Italia.

È strano parlare di distopie con lei…

Non c’è un solo futuro, ci sono tanti futuri possibili. E prenderanno forma dalle azioni quotidiane e dalle scelte dei prossimi anni. La distopia è uno strumento per ragionare su ciò che vogliamo davvero per noi, per gli esseri umani e per il pianeta.

 

Tutte le immagini pubblicate in questo articolo ​​sono opere di Gabriele Picco, in mostra fino al 18 settembre a Palazzo Martinendo Cesaresco Novarino a Brescia, in occasione della personale dell’artista Clouds Never Say Hello, a cura di Claudio Musso. Ph. Giuliano Radici