Nel suo libro ‘Le non cose’, il filosofo Byong-chul Han riflette sulla società iperconnessa dove la costante attenzione a dati e informazioni sbiadisce il potere (concreto) delle cose. Destabilizzandoci

Perché questo diffuso senso di incertezza? Perché le cose sono punti fermi àncore, appigli dellesistenza. Perché le cose, come le sedie e i tavoli ma anche le fotografie analogiche, sono approdi saldi e concreti a cui aggrapparsi. Ma le non-cose stanno prendendo il sopravvento sul reale.

È questo che afferma in modo netto e schietto il filosofo tedesco di origini sudcoreane Byung-chul Han nel libro Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale edito da Einaudi.

Cosa sono le non-cose?

Il continuo, caotico, disturbante flusso di informazioni e dati genera le non-cose, che distolgono dalle cose, quelle tangibili, dal loro potere, dalla loro magia.

Perché riserviamo loro unattenzione costante e frenetica? Perché tutto ciò che stabilizza la vita umana è impegnativo: prevede legami, vincoli, riti e tempi lenti, non si fonda sulla contingenza, sul sensazionalismo immediato.

La soluzione? Indugiare: quel guardare contemplativo, senza secondi fini, le cose silenziose, poco appariscenti, ordinarie. E mettersi in ascolto di noi e degli altri.

Ma procediamo un passo alla volta, partendo proprio dalle parole che usa, mai a caso, con uno stile diretto, nitido e coinciso, Byung-chul Han.

Una sferzante riflessione sulla digitalizzazione

Nel suo nuovo saggio sulla società fluida e iperconnessa, Byung-Chul Han, attraverso spunti ed esempi precisi e peculiari, apporta riflessioni sferzanti su digitalizzazione e comunicazione, smartphone e selfie, possesso e accesso, Internet e futuro. Il libro invita a coltivare l’arte della lentezza, del silenzio e dellindugio, oltre ad evidenziare le criticità dell’intelligenza artificiale e dell’idea stessa di post-umano.

“La memoria dei computer è additiva, la nostra è sempre narrativa” è il concetto fondamentale intorno a cui si snodano tutti i ragionamenti del filosofo.

Non sono gli oggetti bensì le informazioni a predisporre il mondo in cui viviamo

Secondo Byung-chul Han, oggi siamo nellera di passaggio dalle cose alle non-cose: siamo dediti ossessionati da informazioni e dati e la conseguenza è l’infomania. Corriamo dietro alle informazioni senza approdare ad alcun sapere”.

“L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile”. “Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo”.

Da sole le informazioni non illuminano il mondo. Anzi possono oscurarlo. Il caos informativo ci scaraventa in una società post-fattuale che pialla le differenziazioni tra vero e falso. Lefficacia sostituisce la verità.

La verità è impegnativa. Quando uninformazione scaccia laltra, non abbiamo più tempo per la verità.

 

I ricordi custoditi dalla fotografia analogica...

“Se osserviamo un’immagine solo a partire dalle informazioni, ci sfugge la sua caparbietà, la sua magia”.

Secondo Han, la digitalizzazione ha una natura puramente additiva, al contrario della memoria umana che è narrativa: si limita a mettere in fila i dati e a conservarli così come sono stati inseriti, senza alcuna elaborazione.

Come la Fotografia della madre morta di Roland Barthes su cui si sofferma Han. Una fotografia analogica viva, romanzescache incarna una presenza, contiene (fisicamente) ricordi ed emana un racconto, dolente e commuovente, da conservare, ben oltre la sequenzialità effimera instantanea di un selfie.

... latto comunicativo del selfie

“Fare selfie è un atto comunicativo, per cui devono essere esposti allo sguardo degli altri, devono essere condivisi, la loro essenza è l ’esibizione, mentre a caratterizzare la Fotografia (di Barthes) è il mistero”.

Lo smartphone come oggetto narcisistico e autistico

Per il filosofo, lo smartphone “è un oggetto narcisistico e autistico grazie al quale si percepisce soprattutto se stessi”. Ognuno vive all’interno della propria bolla ipersocial, eludendo la corporeità dei contatti sociali. Il risultato è una solitudine sociale diffusa: nessuno si mette in ascolto, ciascuno produce se stesso.

Lo smartphone “sbriga per noi qualsiasi incombenza”. “Deleghiamo a esso le nostre percezioni. Percepiamo la realtà mediante lo schermo”.

“Debella la contingenza del futuro. Un futuro prevedibile in forma di presente ottimizzato”.

Homo faber vs homo ludens

La mano del lavoratore viene messa a confronto con il dito che digita e scrolla costantemente, quello di un uomo che non ha ostacoli da contrastare, deve solo scegliere, tramite gesti quasi liturgici, e giocare.

La mano è lorgano del lavoro e dellazione. Il dito, di contro, è l'organo della scelta. Luomo senza mani del futuro ricorre solo alle dita. Sceglie invece di agire. Schiaccia i tasti per soddisfare i propri bisogni.

La memoria non è additiva ma narrativa

La critica allapproccio post-umano si fonda sul concetto che la memoria non è additiva, bensì narrativa: i ricordi plasmano una storia mutevole, mentre i medium digitali operano solo immagazzinando dati.

“L’addizione e l’accumulo scacciano le narrazioni. Solo le narrazioni generano senso e tenuta. L’ordine digitale, numerico, è privo di storia e memoria. Quindi frammenta la vita”.

“La memoria è un tessuto narrativo. Le tracce mnemoniche sono vive, il dispositivo che salva i dati è morto. I dati immagazzinati restano sempre uguali a sé stessi. Sono morti. Le cose vive non si lasciano trasformare in dati e informazioni”.

Possesso vs accesso - avere vs esperire

Lo smarthphone è levigato, perfetto, non genera crucci né contrasti ma ottimizza la vita: un oggetto che si spoglia di una valenza affettiva per assumere quella performativa.

“Il phono sapiens che traffica con le dita sullo smartphone” “non vuole nemmeno possedere nulla, solo esperire e divertirsi”.

Lo schermo ci protegge dalla realtà

Il baccano informativo non è composto da frecce appuntite: non trafigge, non pungola, non sgomenta ma neanche stimola.

“Il punctum della realtà fora il campo della rappresentazione e fa irrompere la presenza. Esso crea attimi epifanici. La digitalizzazione assolutizza lo studium riducendo la realtà a informazioni”.

“Lo schermo digitale che definisce la nostra esperienza del mondo ci protegge dalla realtà. Il mondo diventa irreale, viene derealizzato e disincantato. L’ego che va potenziandosi non si lascia più toccare dall Altro: si limita a specchiarsi nel dorso delle cose”.

La nota personale: il juke-box

Introdotto come una digressione (ma non lo è), l’ultimo capitolo è il più personale e al tempo stesso quello che chiedo il cerchio e risponde alla domanda iniziale: perché ci sentiamo incerti/persi?

Byung-chul Han racconta il rapporto con un juke-box trovato per caso e diventato uno dei tre iconici (e unici) oggetti che abitano la sua casa. Il filosofo spiega con passione la fascinazione per quella cosa, appunto, fuori dal tempo, così fisica, enorme e pesante, così cromata e luccicante, da emanare emozioni intense e multisfaccettate un centro gravitazionale che raduna e connota ogni cosa che lo circonda, facendone un luogo”.

Senza un interlocutore svettante ricadiamo sul nostro ego

Un jube-box dallaura così speciale magica , da diventare un autentico interlocutore, un controcorpo’ per Byung-Chul Han, che conclude “Per essere felici abbiamo bisogno di un interlocutore svettante che s’imponga sopra di noi. La digitalizzazione fa fuori qualsiasi controparte, qualsiasi contro. In questo modo perdiamo la sensibilità nei confronti di ciò che regge, svetta, ci eleva. Per via dell’interlocutore mancante non facciamo che ricadere sul nostro ego, e questo ci rende privi di mondo, quindi depressi.

 

 

Photo cover: Ziqian Liu, Symbiosis (detail), 2020. Ph. Courtesy Paola Sosio Gallery. Nell'ambito della mostra Ziqian Liu. Inner Eye, a cura di Claudio Composti, alla Other Size Gallery di Milano, fino al 16 settembre 2022.

Un invito, aggraziato, quieto e rarefatto, a riprendersi il proprio tempo, lentamente, la mostra, realizzata in collaborazione con Paola Sosio Contemporary Art, espone una galleria di dieci autoritratti in cui la fotografa cinese accosta il proprio corpo a elementi naturali come fiori o frutta in composizioni che esprimono un senso di equilibrio, indugio e pacata contemplazione.

I tempi lenti e solitari per fare conoscenza di sé

Per Ziqian Liu l'autoritratto è un modo per parlare a se stessa: il processo di costruzione dell’immagine – la composizione degli oggetti, il proprio posizionamento all’interno della fotografia – viene infatti svolto in completa solitudine, in piena libertà e con tempi lenti, come lungo, meticoloso e lento è il processo di conoscenza di sé. 

Riuscire a sentirsi respirare

“Scelgo l'autoritrattoracconta Ziqian “perché nella vita di tutti i giorni abbiamo molto tempo per comunicare con gli altri, ma penso che sia necessario dedicare del tempo anche a se stessi. Penso che a volte la solitudine sia anche divertente. Adoro i momenti in cui riesco a sentirmi respirare”.

Autoritratti senza volto

Nel guardare i suoi scatti, l’osservatore ha la sensazione di leggere le pagine di un diario personale, di assistere a un momento privato a cui però non ha completo accesso. Il volto di Ziqian, infatti – e paradossalmente, trattandosi di autoritratti – viene sempre negato o svelato a piccoli tratti, come a invitare chi guarda a immaginarlo o a sostituirlo con il proprio, in un gioco di rimandi tra il sé e l’altro.