Tre incontri a tema per fare il punto sulla fragilità abitativa: i modelli di vita alternativi che cambieranno Milano

Una Laurea in filosofia politica e scienze sociali a Cambridge e un CV professionale maturato sul campo: è a Tel Aviv, in Israele, e nel nord della Thailandia, che nel suo passato recente, insieme alle organizzazioni umanitarie, si è occupata di rifugiati e richiedenti asilo.

Oggi, Erica Petrillo, 33 anni, un master alla Maastricht University olandese — dove ha imparato a osservare le discipline artistiche da una prospettiva sociologica — e una collaborazione con +2050 di Ippolito Pestellini Laparelli, è la prima ‘curator in residence’ di Base Milano.

A lei, l’istituzione milanese ha affidato il progetto del public program CASE: un ciclo di tre incontri mensili per portare all’evidenza del pubblico l’emergenza abitativa.

“Il tema è emerso quasi naturalmente rispetto al dibattito che sta interessando Milano”, ci racconta. “La protesta degli studenti, accampati nel giardino Leonardo Da Vinci, davanti all’ingresso del PoliMI, la dice lunga sullo stato dell’offerta abitativa del capoluogo milanese”, la città sta correndo il serio rischio di apparire inospitale ai più fragili, quasi respingente.

“Tentare di unire le istanze emerse in ‘L’invenzione di Milano’, il libro di Lucia Tozzi, e quelle sollevate nell’articolo di Andrea Bagnato, su una possibile complicità tra design week e speculazione immobiliare, ho pensato fosso un buon punto di partenza per affrontare la questione in maniera seria”, senza cadere dunque nel gioco polemico dell’invettiva o del clickbait.

“L’obiettivo è agire su Milano solo dopo aver analizzato l’urgenza, prima in termini speculativi e poi in relazione alla situazione europea”, per poter proporre soluzioni è necessario capire il quadro di riferimento.

CASE tiene assieme entrambe le dimensioni della casa, quella simbolica e quella del progetto, le stesse che il termine inglese scinde in ‘home’ e ‘house’.

Ma CASE, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, non cavalca le protese locali, piuttosto prende a esempio episodi precisi e puntuali che accadono in Europa e nel Mediterraneo, per rigenerare il significato stesso di ‘abitare’”.

La domanda punto di partenza è: come possiamo creare una società più giusta, più sostenibile, più inclusiva?

“Il nostro compito è portare all’evidenza del pubblico ‘case studies’ di piccole comunità che sperimentano forme alternative dello stare assieme”, primo approfondimento semantico.

Pelin Tan, la protagonista del primo incontro di gennaio, ha introdotto con la sua lecture il tema dei campi dei rifugiati: come si vive in questi spazi allestiti lungo le coste del Mediterraneo, in Italia, in Turchia, in Grecia?

La sua pratica, di sociologa e storica dell’arte, tiene insieme dimensione dell’attivismo e ricerca accademica: “Pelin vive al confine con la Siria, nel sud est della Turchia, insegna alla Batman University, ed è in grado di stare tanto in un'aula universitaria quanto in strada.

Il suo impegno se da una parte denuncia la precarietà di ciò che, costruito per essere temporaneo, è invece permanente, dall’altra pone in evidenza nuove forme di co-abitazione da cui possiamo imparare”.

La liminalità, dunque, come terreno di indagine: “la questione da dirimere ovunque nei campi è la gestione della coesistenza fra comunità di religioni ed etnie diverse. È interessante vedere come immaginando un muro che si fa corridoio poroso, le persone si avvicinano per attivare quasi naturalmente le dinamiche di inclusione”, e la discussione sull’inutilità di innalzare barriere istituzionali.

Nel secondo episodio del 28 di febbraio, Berta Gutierrez e Alkistis Thomidou, dei Forty Five Degrees, insieme a Rosario Talevi (e a Erica Petrillo) guarderanno invece alla questione abitativa da una prospettiva europea: entrambi, il collettivo e la practitioner — tra le fondatrici dell'esperimento floating —, stanziali a Berlino, lavorano sul tema del nomadismo.

Se i primi portano avanti una pratica di ricerca itinerante lungo il 45esimo parallelo nord, una linea immaginaria che idealmente divide l’Europa e attraversa l’Italia nella zona del Piemonte, l’architetta, con il suo centro di disseminazione di saperi alternativo — un luogo di sperimentazione adagiato nel mezzo di una palude —, cerca di ripensare le metodologie della pedagogia, di abbattere e ricodificare la tradizionale divisione tra insegnanti e studenti.

La domanda che accomuna entrambi è: come si costruisce una coesistenza pacifica e virtuosa tra specie diverse, migrando di realtà in realtà?

“L’osservazione sul campo è l’unico modo di immaginare modalità di vita alternative, se vuoi complementari a quelle a cui siamo abituati nel nostro contesto urbano”.

Il terzo episodio invece punterà lo sguardo direttamente su Milano per attivare un workshop di autocostruzione aperto a tutti. Coordinato da Francesca Gotti, dottoranda esperta di squatting, legata a tanti collettivi milanesi tra i quali ‘Abitare in via Padova’ e ‘Milano in movimento’, ”l’appuntamento del 15 marzo sarà l’occasione per realizzare un oggetto, una specie di device, una mini agorà, con funzioni di archivio e sportello di servizio, da affidare ai comitati di via Padova.

Una sorta di architettura manifesto a memoria dell’urgenza abitativa”.

A completare il ‘piano formativo’, la pubblicazione di tre zine da collezionare, “e portarsi nelle proprie CASE”.

Alla fine del percorso, Erica Petrillo ci avrà insegnato a riflettere sulla questione dell’abitare, adottando il giusto punto di vista. “Per incidere sullo stato di fatto, occorre attivare non solo politiche abitative diverse ed erogare più sussidi per le case popolari, ma anche ripensare a 360 gradi tutto quello che definisce la parola ‘abitare’: dalle esigenze delle sue comunità, alle condizioni di lavoro di chi le compone sino alla condivisione dei saperi”. Dunque più che di politica e di strategia immobiliare e di speculazione edilizia, ‘abitare’ è prima di tutto una questione di cultura: la vera rivoluzione è leggere per poi, con il giusto vocabolario, scendere in strada.