Oggetti dalla morfologia libera, non classificabile, che mettono da parte le certezze funzionaliste per recuperare il senso sorgivo del design, espresso in flussi generativi aperti e proteiformi

Il progetto vive di ragione e sentimento. Come un’energia che sgorga dalle profondità della memoria, sia personale che culturale, la creatività attinge da antiche stratificazioni sepolte dal tempo e dalla vita, che tornano utilizzabili nel momento in cui una stimolazione contingente (alcuni la chiamano 'ispirazione') le riaccende.

L’onda produttrice che ne scaturisce è potente, generosa, subito incanalata in una forma ben definita. Fare design vuol dire bilanciare questa spinta creatrice originaria con la vigilanza della razionalità, in una sorta di tiro alla fune tra controllo e liberazione, in cui minore è il ruolo della ragione, maggiore è la prodigalità della creazione.

Proprio questo è il caso di una recente tendenza nel mondo design che, innestandosi su un filone risalente all’Art Nouveau e a Gaudí, e poi alle morfologie biologiste di Carlo Mollino e agli Animali Domestici di Andrea Branzi, approda oggi a un linguaggio ‘informale’ nel senso letterale del termine, dando vita a corpi oggettuali in cui pulsa ancora calda l’energia progettuale primigenia.

Ne sono esempi la lampada Womb di Jan Ernst, sia in versione da tavolo che applique, e le sedute modulari Flowers di Olga Engel, parte della collezione Unspoken Duality per Mia Karlova Galerie, o ancora le forme sinusoidali del flagship store di ToSummer a Pechino che F.O.G. Architecture ha disegnato come l’acqua scolpisce la roccia.

Da questo punto di vista, non è un caso che un oggetto-scultura come Hop Step di Aldo Bakker appaia difficilmente classificabile nelle tipologie standard, squagliate e fuse in questa presenza oggettuale dall’aspetto ‘alieno’ che sembra frutto di natura e artificio allo stesso tempo, incredibilmente simile in ciò alle rocce marziane che le sonde della Nasa ci stanno mostrando sempre più di frequente.

Di fatto, questo del design liberato dalla forma è un filone antico e mai sopito nella cultura del progetto, pulsione primaria della creatività intercettata nel momento in cui fuoriesce dalla linea di faglia che separa (e perciò unisce) il continente dell’arte e quello del design.

Lo testimonia un’installazione come Floating Towers di Cristián Mohaded per Sarah Myerscough Gallery, o come la collezione di oggetti in legno e acrilico Volax del duo greco Objects of Common Interest per Carwan Gallery.

Il fatto che ci si trovi qui a cavallo fra produzione ‘libera’ e ‘vincolata’ non è un caso ma dipende dalla natura ibrida, esuberante, riottosa a qualsiasi ingabbiamento di questa energia primigenia.

Certo, non è facile immaginare forme non-forme come queste, letteralmente non ‘pre-vedibili’ e quindi, in un certo senso, non ‘pro-gettabili’.

Ma è appunto questo il ruolo del filone informale nella cultura del progetto, un ruolo paragonabile a quello del cuore nell’organismo, che batte senza ragione e controllo alimentando la vita che ci abita.

E che tale riferimento al senso della corporeità sia più di una metafora lo dimostra un brand come Dame Products, fondato da Alexandra Fine con la missione di colmare il ‘pleasure gap’ che ancora stigmatizza il piacere sessuale femminile rispetto a quello maschile attraverso oggetti ad elevato contenuto estetico e culturale.

Questo alimentato dall’energia originaria del progetto è di fatto un design fetale, rigoglioso, ormonale, da preservare tanto più oggi che, assediati da strumenti freddi e luccicanti, rischiamo di perdere di vista la frattura originaria da cui il magma genetico del progetto sgorga come vita dal solco sorgivo che segna il corpo della donna e, quindi, dell’umanità.