Come decostruire lo sguardo sulla città per includere invece di marginalizzare? Da Leslie Kern all’analisi disgregata dei dati, i pensieri e le strategie per mettere in discussione la visione 'neutra' dell’ambiente urbano

Lo spazio non è neutro, come non è mai neutro lo sguardo di chi progetta soluzioni urbanistiche. Si scambia per neutralità l’aderenza sistemica a categorie e strutture sociali dominanti.

Criado Perez, attivista e autrice del libro Invisibili in cui rilegge i dati in ottica di genere sostiene che "quando i pianificatori non tengono conto del genere, gli spazi pubblici diventano di default spazi maschili".

Chi ha diritto alla città?

Facciamoci caso: lo spazio urbano è un potentissimo vettore di normalizzazione. Persino nel linguaggio comune si usano metafore spaziali per definire ciò che è 'a posto' e ciò che, invece, è 'fuori luogo'. Nella nostra epoca storica in cui si aprono riflessioni sui meccanismi di privilegio ed esclusione è urgente mettersi in discussione.

Chi ha diritto alla città? Quale struttura sociale rispecchia?  Chi viene spinto ai margini? Con quali bias o negazioni è progettata? Farsi queste domande impone un nuovo sguardo, consapevole di come lo spazio sia specchio e agente delle strutture sociali patriarcali – usiamo pure questa parola – e che occorre una decostruzione attraverso lenti di osservazione femministe e intersezionali.

C'è chi osserva le città dal punto di vista del genere

"Come sarebbe un futuro urbano con il massimo dell’assistenza?". La domanda viene da Leslie Kern attivista e docente nel suo libro La città femminista edito da Treccani. "Un futuro basato sui bisogni, sulle richieste e sui desideri delle donne di colore, disabili, queer, madri single, donne anziane, donne indigene e soprattutto sui bisogni di quelle donne in cui tutte queste identità si intrecciano?"

Di fresca pubblicazione, Milano Gender Atlas - ricerca curata da Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro di Sex & The City – osserva la città da un punto di vista di genere per stimolare la pianificazione di contesti a misura di tutti i corpi: donne, uomini, persone non binarie, ragazze e ragazzi, bambini, anziani, disabili.

La ricerca affronta il tema della paura nello spazio pubblico, della presenza di figure femminili nella sfera simbolica e pubblica, dell’uso della città, dei servizi e delle reti informali visti attraverso la lente del lavoro di cura (ancora sbilanciatamente a carico del genere femminile).

"La città femminista è quella in cui le barriere – fisiche e sociali – vengono smantellate e tutti i corpi sono accolti e ospitati allo stesso modo.

La città femminista mette al centro l’assistenza, non perché questa debba rimanere un lavoro esclusivamente da donne ma perché la città ha il potenziale per ripartirla in modo più uniforme." – questa la sintesi di Leslie Kern - "La città femminista deve prendere spunto dagli strumenti creativi che le donne hanno sempre utilizzato per sostenersi a vicenda e trovare modalità per ricreare quel supporto all’interno del tessuto urbano stesso".

La decostruzione come atto creativo

Nella decostruzione sussiste, infatti, un atto creativo verso immaginari, linguaggi, dimensioni, desideri e emozioni: dobbiamo re-impadronirci della capacità di immaginare gli spazi che abitiamo e rivendicare un ruolo attivo nella definizione dei servizi e luoghi pubblici.

Secondo Federica Castelli e Serena Olcuire di IAPH Italia "La città non è un dato statico, può essere anche spazio di espressione, creazione, reinvenzione; i soggetti la creano e la ricreano incessantemente con le loro relazioni e i loro attraversamenti; la città è contingente e in continuo mutamento.

Per questo, inventare pratiche collettive può davvero rovesciare la scena. Mettere al centro i corpi, il desiderio anziché la paura, le pratiche collettive anziché i dispositivi di sorveglianza, creare alleanze tra i soggetti imprevisti: da queste (e altre) vie passa la risignificazione e la riappropriazione delle strade".

Progettare empaticamente

Occorre progettare con sguardo ed empatia che non pensa a un utente unico ma che si mette in ascolto e accoglie la complessità per far fronte alle diverse esigenze. Occorre valorizzare le esperienze spontanee e i presidi femministi – come le esperienze di Lucha Y Siesta a Roma, dell’asilo nido autogestito.

Soprasotto a Milano, le pianificazioni del gruppo RebelArchitette, gli esperimenti di bilanci partecipativi o di urbanista tattica attivi in numerose città o dei movimenti dal basso come Take Back the Night, i Pride Strikes in India, le Slutwalks e le proteste di #Cuéntalo.

Tutti questi esempi intervengono nel colmare i buchi di servizi cittadini e nel rivendicare i diritti delle donne e di altri gruppi emarginati dallo spazio urbano.

C’è una ricetta per trasformare i dispositivi urbani in ambienti inclusivi? No, ma tornando a Leslie Kern "se iniziamo a capire che la città è impostata per sostenere un particolare modo di organizzare la società – attraverso il genere, la razza, la sessualità e altro – possiamo iniziare a cercare nuove possibilità.

Ci sono infinite opzioni per creare spazi alternativi. La città femminista è un progetto ambizioso, senza un piano 'maestro'. La città femminista è un esperimento continuo per vivere in modo diverso, migliore, più giusto in un mondo urbano".