Dal dibattito sulla grande opera più controversa sembrano spariti il progetto e i progettisti: abbiamo raccolto tre opinioni autorevoli, provando a ripristinare un approccio laico alla questione

Nel dibattito intorno al Ponte sullo Stretto, c'è un protagonista che dovrebbe distribuire la parola al tavolo e invece è il convitato di pietra: l'architettura.

E non è un caso che di questa opera colossale quasi nessuno ricordi l'autore, l'ingegnere inglese William Brown (neppure uno qualunque ma il progettista di ponti sospesi più autorevole al mondo).

Ridotto da tempo a tema da talk show, simbolo dell'approccio ideologico al futuro, "il ponte a campata unica più lungo del mondo" sembra essere ovunque meno che dove dovrebbe: negli interventi dei professionisti più titolati a parlare, se non altro, delle questioni progettuali e costruttive.

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È come se a un certo punto il relatore principale di un convegno avesse deciso di sparire senza neanche parlare, portandosi via le slide e il microfono.

Davvero, come hanno scritto l'anno scorso Giuseppe Inturri, Francesco Martinico e Fausto Carmelo Nigrelli su Micromega, "il Ponte sullo Stretto non è un progetto, ma un emblema"? Oppure c'è ancora spazio per una discussione laica, in cui gli architetti e l'architettura si riprendano il proprio posto?

Un'opera che è un tema in sé e ha perso il proprio senso

Alfonso Femia, che sul tema è coinvolto in più vesti - come architetto dalle radici calabresi, come ideatore e curatore della Biennale dello Stretto e come membro della Commissione di studio sul Ponte sullo Stretto che coadiuverà la commissione consiliare territorio nell’esame del progetto e di una nuova visione di Villa SanGiovanni - parte proprio dalla riflessione di Micromega che tirava in ballo il George Simmel di Il ponte e le porte.

"In quel testo del 1909 - spiega Femia - il filosofo tedesco descrive che cosa succede quando un'opera assume un valore che trascende il senso pratico per assumerne uno estetico. Chiaramente Simmel non si riferisce al nostro ponte, tuttavia il suo pensiero può essere assunto come una possibile interpretazione della sua metastoria. È proprio questo il punto: il ponte sullo Stretto di Messina è diventato un tema in sé, che trascende il significato di 'unione del separato'".

Un'opera colossale delegata alle aziende?

Mario Cucinella ammette che sull'argomento Ponte gli architetti latitano, poi riconduce il tema alla generale assenza di un dibattito, promosso dalla politica, sul ruolo che l'architettura dovrebbe avere nel futuro del Paese: "Mi sembra evidente come la vicenda Ponte sia l'ennesimo capitolo di quel romanzo di non amore dell'Italia verso il progetto e i progettisti.

Abbiamo delegato quest'opera colossale a una società privata (il general contractor Eurolink partecipato dalle italiane WeBuild, Condotte d’Acqua, Cmc e Consorzio Aci, dalla spagnola Sacyr e dalla giapponese HI, ndr), senza neanche preoccuparci di capire come cambierà la vita delle comunità che abitano le aree intorno all'opera.

Messina, Reggio Calabria e l'intera zona dello Stretto dovrebbero lavorare a piani urbanistici coerenti con il progetto, ma su questo, lontano dalle terre interessate, nessuno spende una parola".

Da Nervi a Piano, il passato ci spinge a fare

Massimo Roj, architetto e amministratore delegato di Progetto Cmr, dice la sua in maniera netta, senza paura di mostrarsi favorevole all'opera. "Non ho mai amato gli approcci ideologici: sono per il fare. E credo che il Ponte vada fatto non solo perché necessario, ma anche perché figlio di una tradizione d'eccellenza del pensiero progettuale italiano, quello dei Morandi e dei Musmeci, dei Nervi e dei Piano.

Certo, lo sguardo contemporaneo al futuro con il suo carico di distopie non aiuta a guardare lontano, ma non posso che domandarmi per quale motivo dovremmo considerare con sfiducia le capacità delle aziende candidate a costruire l'opera, le stesse che all'estero realizzano progetti forse ancora più complessi".

Dire no al dibattito urlato non vuol dire essere agnostici

"La risposta al Ponte" aggiunge Femia "non sta in un sì o in un no urlati. La mia non è una posizione agnostica, penso che sia necessario considerare tutti gli aspetti e sacrificare, proprio in ragione del superamento dell’urlato, il minor numero possibile di domande.

Se, da una parte, l’architettura e l’ingegneria hanno nel loro Dna l’obiettivo di addomesticare, conciliare, trasformare l’ambiente naturale, dall’altra - particolarmente l’architettura - non possono affrancarsi dalla responsabilità di comprendere le sensibilità individuali e collettive che le alimentano nei processi di sviluppo territoriali.

È, dunque, fondamentale valutare responsabilmente quanto il ponte potrebbe pesare sul piano culturale, se più ferita e separazione che connessione.

Il percorso che conduce al Ponte deve includere prioritariamente un approfondimento culturale e sociale, deve tendere a un buon equilibrio, alla valorizzazione territoriale a scala mediterranea, ed è questa una ricerca che potrebbe portare alla consapevolezza di un tempo già superato".

Un'occasione persa per fare ordine. E tornare a parlare di concorsi

Cucinella sembra avere un'idea più netta che vira verso il no. O almeno il suo è un no a questo Ponte, più che all'idea generale di collegare Scilla e Cariddi: "Perfino sull'aspetto più sfidante dell'opera, quello dell'unica campata in un territorio ad altissimo rischio sismico, è stato scelto di procedere a senso unico, quando invece era possibile raccogliere per le vie ufficiali più idee e metterle a confronto in maniera aperta, costruendo intorno un dibattito serio.

Questo procedere blindato, che dà tutto per scontato, sta finendo per farci perdere un'occasione enorme: trasformare quest'opera nel pretesto per alzare il tiro della ricerca progettuale, mettere ordine a questioni cruciali come quella che riguarda il ruolo dell'architettura in un Paese dove, per esempio, non si fanno più concorsi. Vorrei essere ottimista, ma purtroppo non ci riesco".