Il design è un modo di vivere, come lo yoga, dice Michael Anastassiades, firma di punta di Flos. In entrambe le discipline, infatti, si cresce solo accettando la propria vulnerabilità e trasformandola in un’apertura verso il mondo

Parlare con Michael Anastassiades è un piacevole privilegio. Prima di tutto perché è interessante entrare nella mente di qualcuno capace di creare oggetti carichi di una bellezza senza tempo. E, in secondo luogo, perché il designer cipriota, firma di punta di Flos, offre spunti di riflessione che connettono il design alle grandi domande esistenziali (come qui) che spesso si ha paura di affrontare.

La nostra chiacchierata, per esempio, inizia con un commento sulla difficile situazione che la pandemia ha creato. “È stato un momento impegnativo e difficile sia dal punto di vista lavorativo che personale e famigliare”, ha detto Anastassiades. “Ma c’è qualcosa di affascinante in quello che sta accadendo: non sappiamo cosa fare, avanziamo per piccoli passi, testando diverse direzioni e sperando di trovare quella giusta. È uno stato sospeso in cui è normale sentirsi impauriti o indifesi ma che ha molto a che fare con quello che dovrebbe essere l’approccio alla vita di un designer”.

Perché questo stato sospeso e fragile dovrebbe essere quello in cui si muove un designer?

“Perché fragilità è vulnerabilità. E, come tale, è uno stato di esposizione e apertura. Sentirsi fragili (io preferisco dire vulnerabili) ci prepara ad accettare nuove idee ed esplorare percorsi ingegnosi. Non sappiamo dove arriveremo ma ci proviamo perché non abbiamo niente da perdere. È simile a ciò che accade quando si praticano i backbend nello yoga (Anastassiades insegna yoga da anni, ndr). Sono posizioni fisicamente impegnative ed emotivamente travolgenti e ci si sente estremamente vulnerabili nel praticarle. A quel punto ci si apre alla respirazione e alla guida del maestro e il corpo si apre e con il tempo riesce a fare qualsiasi cosa perché è pronto a ricevere. Quello che è fisico diventa metafisico sperimentando la vulnerabilità e superandola”.

Ricorda il concetto di Antifragile che l'economista e matematico Nassim Nicholas Taleb descrive nel suo omonimo libro. Per Taleb, l’antifragile è “oltre la resilienza o la robustezza” perché mentre “il resiliente resiste agli urti ma rimane lo stesso, l'antifragile migliora”. È di questo che parliamo?

“Sì, anche se io alla parola fragilità, come ho detto, preferisco vulnerabilità. È la stessa cosa perché questo "andare oltre", che si realizza attraverso la vulnerabilità e quindi l'apertura, diventa un modo di vivere che ci fa crescere, in tutti i campi. Ecco perché sia lo yoga che il design sono modi di vivere. Naturalmente non è necessariamente attraverso lo yoga che si arriva alla vulnerabilità che ci apre al mondo: la meditazione può avvenire attraverso molte pratiche che ci portano a collegare pensieri e idee e tracciare paralleli. Qualunque cosa si faccia, la capacità di ricevere idee è la qualità più importante necessaria per progettare. Chi è chiuso progetta oggetti egoisti, piccole torri d’avorio senza connessioni con le persone o con il mondo. Invece il design esiste per creare relazioni e interazioni tra persone e oggetti, dialoghi costruttivi tra le persone, e per creare una testimonianza fisica del tempo in cui viviamo. Se il design non fa tutto questo è un inutile esercizio di decorazione“.

Come si progettano le relazioni prima degli oggetti?

“Quando ho iniziato a progettare, disegnavo diagrammi di relazione o diagrammi a bolle. Volevo capire quello che accade tra persone e oggetti, ma anche oggetti e oggetti, nel tempo e nello spazio. Non sapevo cosa avrei inventato, ma questa pratica mi aiutava a vedere improvvisamente che c’era molto spazio per inventare nuove relazioni. Per esempio, ho creato una luce antisociale che si accendeva solo quando c’era silenzio e si attenuava progressivamente man mano che le voci aumentavano. E una tazza che registrava messaggi vocali (siamo nell’era pre-cellulari) per i miei compagni di appartamento. Quando era capovolta sul tavolo conteneva un vocale. Entrambi sono oggetti che nascono dal desiderio di creare interazioni diverse piuttosto che dalla ripetizione di un modello di produzione esistente”.

C'è spazio oggetti che inventano relazioni nella produzione industriale? O rimane tutto nel territorio del concept design?

“C'è spazio per questo nella produzione industriale, assolutamente, purché ci sia da parte di un’azienda il desiderio di provare questa via. Tutte le collezioni che ho disegnato per Flos nascono da questo pensiero. Dalle String Lights fino a Coordinates (leggi qui la scheda dedicata di Interni Design Journal), si tratta di oggetti che celebrano il passaggio della creatività dal designer all'utente. Sono come un foglio di carta bianco e una penna. La libertà che offrono può creare disagio a chi non è abituato ad aprirsi. Coordinates, ad esempio, ha esplorato l'idea del tratteggio incrociato e, fornendo linee orizzontali e verticali, consente di progettare immagini sospese nello spazio. Riguarda il rapporto tra persone, oggetti e spazio, nel tempo ... “

Hai detto che la libertà di progetti di questo tipo potrebbe creare "disagio". Un concetto che difficilmente fa gola a chi si occupa di marketing. Eppure i tuoi prodotti sono anche successi commerciali. Come mai?

“La verità è che molte persone vogliono uscire dalla loro zona di comfort. È quindi un bene permettere a queste persone di sentirsi momentaneamente vulnerabili: è il primo passo verso l’apertura. Detto questo non credo che i risultati commerciali siano una buona misura per il successo del design ma, piuttosto, che lo sia la sua capacità di sfidare il suo pubblico “.

Non molte aziende sceglierebbero un simile approccio ...

“Vero. Serve una visione condivisa come è successo con Flos. Il design industriale è uno sforzo di squadra e tutti gli attori devono essere sincronizzarsi per arrivare a risultati specifici. Questo non significa che si debba andare sempre d’accordo, al contrario. È fondamentale che le persone mettano in dubbio quello che fanno gli altri. Purché questo non si sfoci in un approccio negativo e distrittivo a priori”.

E qual è la visione condivisa a cui ti riferisci?

“È legata all'integrità del mio approccio al design. Sono convinto che non si crei mai nulla di veramente nuovo ma che il dovere morale del designer rimanga comunque quello di sforzarsi per offrire qualcosa di diverso. Che significa collegare qualcosa cosa di faccia al tempo di oggi, rendendolo così rilevante”.

“Non si crea mai nulla di veramente nuovo”. È un'affermazione un po' forte...

"Ma anche vera. Ciò che conta di più oggi non è tanto quello che fai ma come lo fai. Va tutto bene se quando disegni un oggetto hai la cultura e la modestia di sapere che non hai inventato nulla e sei disposto a sforzarti per renderlo rilevante alla contemporaneità. È invece triste credere di aver scoperto un universo mentre si stava semplicemente facendo copia e incolla. Come designer, sento che è mio dovere rimanere fedele ai miei valori e mantenere la concentrazione, indipendentemente dalle sfide esterne. I momenti di crisi, come questa pandemia, sono ottimi per ricordarci il nostro obiettivo, personale e collettivo. Ma i progettisti non dovrebbero reagire a ciò che accade: il buon design non nasce dalla reazione ma da un'azione alimentata da una visione solida e dall’accettazione della vulnerabilità come strumento di apertura verso gli altri e il mondo”.