Manuel Aires Mateus racconta cosa ha imparato negli ultimi due anni: “Sogniamo tutti uno spazio domestico flessibile, che sia tante cose insieme. È su questo che l’architettura deve riflettere ora”

Arrivare a Palazzo Litta durante il FuoriSalone 2021 a settembre significava trovarsi nel mezzo dell’installazione di Manuel e Francisco Aires Mateus Una spiaggia nel Barocco. Un'atmosfera di leggerezza, il bisogno di godere con delicatezza, in punta di piedi, il ritrovarsi insieme. Un inno a una nuova, cauta serenità. ll punto per i due architetti portoghesi è concentrarsi sul disegno di assenze e vuoti. Un lavoro per unire i punti formali, suggerire dettagli archetipici senza essere ridondante. E rispettare il bisogno di praticare un’estetica semplice e molto simbolica. Un’intervista con Manuel Aires Mateus significa parlare della relazione fra i bisogni reali delle persone e l’architettura. E il punto di vista è radicale, inaspettato. E molto pragmatico.

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“Avevamo già pronta l’installazione per Design Variations 2020. Si sarebbe intitolata Silenzio e il suo obiettivo era di riportare lo sguardo a ciò che è già presente. Sarebbe stato uno specchio d’acqua al centro del Cortile d’Onore che rifletteva l’immagine di Palazzo Litta. Ci sembrava più che sufficiente per comunicare che quello di cui abbiamo bisogno è già qui e dobbiamo solo trovare un modo per vederlo e usarlo. Poi la pandemia e l'improvvisa obsolescenza dell’idea del silenzio. Ne abbiamo già avuto tanto…”

Una spiaggia nel Barocco invece ha lasciato un segno diverso.

Abbiamo cambiato strada e abbiamo voluto concentrarci sul riutilizzo di immagini universali: la cabina, il carrello dei gelati, la spiaggia. Non è una citazione pop, è un’idea diffusa e leggibile di leggerezza nel mezzo del cortile di un palazzo barocco. Un edificio che ha la capacità  superare la propria funzione e sostare in una condizione permanente, attraversando i secoli. Questa è la grande lezione ecologica dell’architettura europea.

Non dare funzioni all’architettura sembra anche una risposta al tempo del confinamento e della pandemia. 

È molto importante andare avanti e trovare di nuovo una leggerezza praticabile. Ma non dobbiamo dimenticare quello che abbiamo imparato. Per l’architettura è diventato molto chiaro quanto lo spazio privato sia stato trascurato dal punto di vista del progetto: la condizione di molte persone nell’ultimo anno è dipesa esclusivamente da che tipo di casa hanno. Dobbiamo riappropriarci dello spazio privato. E il problema è molto semplice: l’idea radicata di un abitare funzionale è anche nelle leggi e nelle burocrazie che regolano la costruzione degli edifici e la loro ripartizione. Abbiamo bisogno di più libertà per vivere in ambienti che possono cambiare, di cui gli abitanti si possono appropriare.

Funzionalizzare lo spazio ha anche a che fare con la relazione emozionale fra abitanti e case. 

Dare una funzione è un concetto contemporaneo. Negli edifici storici le stanze cambiavano uso a seconda delle esigenze e dei momenti. Un monastero nasceva per ospitare una comunità religiosa, poi una caserma, poi un albergo. Invece oggi abitiamo spazi senza alcuna libertà, perché la norma decide tutto, siamo costretti a vivere in modo univoco. Ma è chiaro che è un atteggiamento progettuale che non interessa più a nessuno. Quindi perchè continuare su questa strada?

Il bisogno radicale di scommettere sulla libertà parte dalle norme e dalle leggi in cui l’architettura è costretta?

La vita non può essere normalizzata: è questo che abbiamo capito. La norma è una noia mortale. Dobbiamo riflettere su come portare più libertà nella concezione dello spazio privato, delle case normali della gente normale. Il bisogno di libertà è l’urgenza più forte emersa durante la pandemia.

Un minore definizione dei confini tra esterno e interno potrebbe essere una soluzione?

Questa è la risposta più facile. Stiamo seguendo un progetto alle porte di Lisbona per un complesso residenziale: in pratica sono trenta giardini su cui si aprono altrettanti appartamenti. Non è stato certo un lavoro difficile. Ma noi ci dobbiamo preoccupare di architetture più “normali”. Come possiamo portare una certa misura di libertà in case piccole, in spazi ridotti, in edifici preesistenti. Immagino palazzi con spazi tutti uguali abitati in modo sempre diverso a seconda di chi li occupa. Ognuno con il proprio linguaggio, con funzioni che si interconnettono e cambiano. E la prima cosa per farlo è rendere flessibile la norma, smussare i confini funzionali. E così si ritorna a all’idea classica dell’architettura europea, immanente, resistente, ecologica. Un edificio che viene occupato dalle persone e non dalle funzioni.