Rockstar ieri, quando negli anni Novanta suonava con successo la batteria nella band Aleks Syntek y la gente normal e architetto acclamato oggi, founder di Rojkind Arquitectos nel 2002, Michel Rojkind, classe 1969, una laurea in Arquitectura y Urbanismo alla Universidad Iberoamericana di Ciudad de México, continua a dare spettacoli non banali.
Dalla sua ampia ed eterogenea produzione abbiamo dunque selezionato tre lavori emblematici di un’adesione alle istanze contemporanee del progetto fuori da schemi e stili precodificati. La società odierna ci spinge a comprendere il nuovo ruolo che i centri commerciali giocano come magneti anche per incontri sociali e scambi culturali? L’architettura può proporsi come medium per riconnettere parti della città o migliorare l’esperienza umana?
Le risposte di Rojkind Arquitectos non si fanno attendere ai grandi magazzini Liverpool, 164 anni di storia come luoghi di riferimento per i grandi acquisti in Messico. Un’ottica di riposizionamento ed espansione del brand ha richiesto la sua interpretazione nel Department Store di Interlomas e in quello di Insurgentes. Due contesti molto differenti tra loro.
Il primo, 18.000 metri quadrati, si trova infatti nel sobborgo settentrionale di Interlomas, dove tutto si esprime all’insegna della massima velocità. Adagiato, come un monolite, tra l’intersecarsi congestionato di autostrade e overpass in una zona caratterizzata dalla mancanza di spazio pubblico aperto (dove i pedoni non sono proprio i benvenuti), l’edificio si sviluppa su un impianto circolare preesistente con forme aerodinamiche, fluide e splendenti.
Nella loro pelle architettonica esterna in acciaio inossidabile lucido, non sembrano allontanarsi molto dall’immagine delle carrozzerie delle automobili dell’intorno. Queste facciate discendono direttamente da modelli 3D, oggetto di un processo di fabbricazione customizzato.
“Certo, hanno un’aria da futurismo alla Blade Runner che fa subito effetto catalizzante nella zona”, riconosce Rojkind. “Ma mi piace soprattutto pensare che l’involucro respiri ed evolva in modo organico in rapporto ai riflessi mutevoli della luce del giorno”, continua. “La sua pelle più interna lo estrapola dal caos del contesto. Poi, durante la notte, quando le cavità tra le pieghe delle doppie superfici di facciata sono inghiottite dalla luce che sottilmente sfugge all’orditura dei pieni e dei vuoti, il solido mono materico-cromatico si trasforma in una forma altamente espressiva”.
Diversamente, il Liverpool Department Store – Insurgentes, di dimensioni più contenute, 825 metri quadrati di area costruita e una facciata di 2.400 metri quadrati, attesta su uno spazio urbano aperto e nevralgico all’intersezione tra le arterie di Insurgentes e Felix Cuevas nel quadrante meridionale di Città del Messico, dove la stazione della metropolitana ha indotto altro incremento di traffico pedonale e trasporti. Così qui l’intervento ha messo in discussione la tipologia della ‘grande scatola’ retail chiusa, restituendo una nuova identità dinamica alla facciata preesistente.
“Ci siamo proposti di definire una pelle permeabile ed esperienziale in grado di mostrare al passante ciò che succede all’interno dello store, dando al contempo la possibilità all’ospite di interagire con gli scenari urbani”, spiega Rojkind.
Come? “Mediante un sistema-parete profondo 2,8 metri ispirato ai pattern di arte ottica di Moiré, costituito da tre strati in fibra di vetro, acciaio, alluminio e vetro, configurati in pluri-forme esagonali connesse a grandi aperture che rendono esplorabili queste programmatiche opzioni, sfocando la linea tra dentro e fuori con una varietà di visualizzazioni temporanee. La pelle porosa della facciata diventa abitabile”.
In sostanza, è stato l’incontro di un progetto digitale high-tech con il know how di maestri artigiani messicani nella lavorazione dei metalli. L’imprinting che, nella sua specificità, caratterizza anche il Mercado Roma, 1.750 metri quadrati che segnano la rinascita di uno spazio industriale prima occupato dal Bar León a Colonia Roma.
Si tratta infatti di un luogo di ristorazione-incontro che intende celebrare le espressioni contemporanee della cultura messicana anche sul piano gastronomico, dando particolare rilievo al significato del progetto in team: disegnato da Rojkind Arquitectos, concettualizzato nel design da Cadena y Asociados, con un pavimento firmato da Cecilia León de la Barra, un orto verticale di Huertos Concretos, le luci di Luz y Forma, gli arredi curati da Alberto Villarreal con Felipe Castañeda, Emiliano Godoy + Tuux.
“Quasi una sorta di collettivo storico che integra più sforzi locali. Per proporsi come fucina di riferimento di prodotti di alta qualità per la comunità (non solo locale)”, ha commentato Ignacio Cadena. Il livello strada organizza cinquantatré bancarelle di vendita con uno schema fluido che reinterpreta il modello a griglia del tradizionale mercato.
I due livelli superiori accolgono due ristoranti che partecipano alla crescita di una parete verde e di un giardino di frutta e verdura acquistabili al dettaglio. Riflette Gerardo Salinas: “Pensare al concept di un mercato contemporaneo in Messico è stata una grande opportunità per testimoniare l’appartenenza a radici urbane e storiche da cui ricavare conoscenza e forza”.
Il punto di vista di Michel Rojkind
Design Week Messico. Che cosa ne pensa?
“Premetto che Città del Messico è una megalopoli ingegnosa per necessità. Non dimentichiamolo. Ci sono molte sfide che ogni giorno attendono i cittadini e quelle rilevanti si relazionano proprio all’uso dello spazio pubblico.
Ognuno è a suo modo un progettista di soluzioni. Gli stessi meccanismi di sopravvivenza della gente comune fanno parte del capitale creativo. Sono la dimostrazione che il design (non solo quello dei professionisti) vive tutti i giorni in ogni angolo della città.
Detto questo, la settimana del design mi sembra importante per capire che cosa sta succedendo nel Paese e in quale direzione stiamo guardando. Il focus non dovrebbe pertanto essere soltanto su ciò che è fisicamente esposto e tangibile. Fondamentale resta abbracciare il dialogo e il confronto più ampio con le esperienze e le prospettive di altre realtà internazionali”.
Città del Messico designata World Design Capital 2018. Quali sono le tre sfide imprescindibili?
“Le sfide erano già indicate nella domanda presentata da Città del Messico per essere selezionata e candidata come World Design Capital® (WDC). È stata designata. Vuol dire che ha convinto tutti l’idea che il progetto possa davvero essere il volano per migliorare la qualità della vita in città (la prima sfida). Nonché il medium per garantire la mobilitazione e la partecipazione di più ampi settori della popolazione (la seconda sfida). Infine, lo strumento per promuovere il dialogo tra la comunità dei creativi e le imprese, il mondo accademico e i giovani (la terza)”.
Che cosa resta davvero fondamentale progettare oggi? E con quale tipo di approccio?
“Penso sia fondamentale comprendere a fondo tutte le dimensioni-sfaccettature di un progetto, ivi comprese le politiche pubbliche da riprogettare o ridefinire. Dal punto di vista dell’approccio – sociale – questo si chiama responsabilità condivisa. Ciò significa che il committente è responsabile per quello che aspira a realizzare, io lo sono come architetto, lo è il governo; così come lo sono tutte le persone coinvolte in una prospettiva di ottimizzazione e valorizzazione della città. Prioritaria resta la collaborazione tra le parti e l’apertura mentale verso una cross pollination davvero costruttiva”.
Se pensasse a un’architettura contemporanea realizzata a Città del Messico eleggibile a paradigma di riferimento, quale potrebbe essere e perché?
“Il mio pensiero va sempre al campus centrale della Città universitaria dell’UNAM (Universidad Nacional Autónoma de México), che si trova a sud di Città del Messico, nel Pedregal de San Ángel. Progettato dagli architetti Enrique del Moral, Mario Pani, Vladimir Kaspe, Alonos Mariscal, tra gli altri, accoglie lo stadio olimpico e altri impianti sportivi, circa 40 facoltà e istituti, il centro culturale, una riserva ecologica, la biblioteca centrale, alcuni musei e sale da concerto.
Più di cento architetti e ingegneri parteciparono alla realizzazione dell’opera. Quali Pedro Ramírez Vázquez, Carlos Lazo, Juan O’Gorman, Enrique Yáñez, Enrique de la Mora, Felix Candela e José Villagrán García. E inoltre, artisti come Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros.
Nell’insieme il campus racchiude la preziosità di un luogo polivalente e multidisciplinare proiettato verso il futuro. Lo è stato già dalle origini, negli anni Cinquanta, quando fu costruito su un antico ‘letto’ di lava solidificata (colata del vulcano Xitle ndr) chiamato ‘El Pedregal’ per riunire gli edifici ad allora sparsi nel centro-città.
Completato nel 1954, è il più grande progetto realizzato in Messico dal tempo degli Aztechi dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 2007. Sarebbe molto difficile immaginare oggi una nuova situazione come questa, a partire dal peso della scala di intervento. È il motivo per cui torno spesso alla Ciudad Universitaria. Come serbatoio di stimoli, è meravigliosa non soltanto per gli studenti o i pedoni; lo rimane anche per gli architetti”.
Foto di Manuel Cervantes, Jaime Navarro, Paúl Rivera/courtesy Rojkind Arquitectos
Testo di Antonella Boisi