Sembra un paradosso. Ma se gli ambienti domestici diventano luoghi di lavoro è importante che assomiglino sempre di più a case che a uffici. In conversazione con Jay Osgerby di Barber Osgerby

I mobili per ufficio e gli spazi di lavoro sono sempre stati temi centrali della ricerca e sviluppo del design. Il modo in cui concepiamo gli ambienti per favorire la collaborazione, in cui sviluppiamo strumenti di comunicazione interna per migliorare lo scambio e – soprattutto – le soluzioni che troviamo per affrontare le problematiche ergonomiche sono tutte sfide che, una volta risolte, possono davvero migliorare la vita lavorativa e la performance.

Ma ora tutto è cambiato e molto probabilmente il fenomeno del lavoro da casa – smettiamo di chiamare smart working quello che non lo è davvero, nella stragrande maggioranza dei casi – non finirà con la pandemia. Di cosa significhi per gli uffici abbiamo parlato qui (leggi qui). Per capire invece cosa succederà alle nostre case abbiamo interpellato Jay Osgerby di Barber Osgerby, il duo britannico che da sempre si sposta con agilità dal mondo della casa a quello dell’ufficio (con Vitra), che – nella loro visione – procedono in parallelo. Alla presentazione di Soft Work, un sistema di sedute di Vitra che funziona sia come unità di relax che come unità di lavoro, hanno infatti detto: Il lavoro è un luogo in cui le persone si incontrano”...

Una bella dichiarazione. Però, per il momento, il lavoro non può essere un luogo in cui ci troviamo...

Vero. E le cose funzionano comunque. Abbiamo scoperto che non abbiamo bisogno di stare fisicamente insieme per far funzionare le cose e, a seconda della professione, questa considerazione può essere una benedizione o una tragedia. Perché per andare avanti  – non intendo solo sopravvivere ma innovare e progettare il domani – abbiamo bisogno di collaborazione ed energia creativa: che prosperano con calore, condivisione umana. Tutte cose che funzionano meglio in presenza.

Perché pensi che siamo riusciti ad adattarci così rapidamente alla situazione del lavoro a casa?

Perché sebbene sia stato improvvisamente imposto, un numero enorme di professionisti in tutto il mondo stava già sperimentando questo modo di lavorare. È più di un decennio che la casa è diventata il luogo di lavoro di tanta, tanta gente. Prima del 2008, il mondo era ancora innamorato degli open space: i tavoloni, le grandi superfici che potevano ospitare persone riunite in un'atmosfera che voleva essere conviviale. Il punto di riferimento – spesso citato apertamente come tale – era la cucina come simbolo di condivisione ed esperienza umana con gli altri. La crisi del 2008 ha però cambiato la vita di molti: il fenomeno dei freelance e dei consulenti che lavoravano da casa è esploso, portando con sé la coscienza del fatto che per produrre del buon lavoro non serve tanto un tavolo ancorato a un pavimento ma tanta tecnologia, flessibilità e creatività. È quindi cambiato anche il modo di progettare gli uffici che hanno iniziato ad assomigliare sempre più alle nostre case. E ora sicuramente la trasformazione avverrà nelle abitazioni. La grande differenza tra allora e oggi è che il lavoro in casa è passato da essere una scelta, una soluzione fluida in una settimana nomade costellata di spostamenti, a un obbligo quasi morale e sociale, esteso su un orizzonte temporale poco chiaro.

Se la casa diventa il luogo in cui lavoriamo, cosa significa per l’arredo?

La sfida da affrontare in modo più urgente è quella dell’ergonomia. Non si può stare 8 ore su una sedia da cucina: prima o poi accadrà qualcosa di brutto al tuo corpo. Ma il design dovrebbe anche concentrarsi sull’ideazione di nuovi archetipi che accompagnino i cambiamenti sociali che stiamo vivendo. Dobbiamo capire come sono le persone oggi – rispetto a quello che pensiamo che siano, siamo tutti cambiati in pochissimo tempo – e come vivono e si comportano in questa nuova situazione. Siamo ancora estremamente orgogliosi di quello che abbiamo fatto con Tip Ton, la sedia di Vitra (leggi qui) che si adatta ai movimenti spontanei del corpo senza alcun meccanismo, solo grazie al design. È una soluzione molto ergonomica ma con un'aura casalinga. Ora più che mai dobbiamo pensare in quei termini: in tema di lavoro in casa bisogna esplorare fuori dal seminato.

Immagino che tu lo dica perché una casa che assomiglia a un ufficio non è una grande idea...

Esattamente. Ma forse anche un ufficio che sembra una casa non lo è più molto. È probabile che il cambiamento coinvolga entrambi gli spazi. Con gli uffici che potrebbero diventare ambienti neutri in cui riunirsi nei momenti chiave, per risolvere problemi, fare pratiche ed esercizi di lavoro di squadra. È un’evoluzione che stava già avvenendo nelle aziende più avanzate: la pandemia ha semplicemente accelerato questa tendenza (che è il vero smart working). È molto più difficile, invece, capire come cambieranno le case anche se è chiaro che non assomiglieranno a ciò che erano gli uffici. Il mio consiglio sarebbe di convertire alcuni spazi seguendo logiche razionali (illuminazione, ergonomia, funzione) per evitare la sensazione di lavoro ovunque’ e di tenere ben presenti le potenzialità che la tecnologia può offrire in termini di privacy e isolamento acustico. Se bastano uno speaker e un paio di cuffiette per entrare nel silenzio non siamo lontani dal sogno di un ambiente fisico delimitato senza elementi fisici che lo delimitano.

Questo per l’home office. E il resto della casa?

Di istinto direi che è ora di abbandonare il less is more. Perché aveva un senso quando la casa era uno spazio di transizione tra una vita frenetica e il relax. Ma nella ‘nuova casa’ dobbiamo ora fare tutto, anche vivere il mondo esterno. Per questo io penso diventerà sempre di più un luogo dove conservare i ricordi e costruire legami. Deve contenere il mondo intero, tutto quello che è lontano e forse non potremo più raggiungere per molto tempo ma che vogliamo tenere nel cuore. Penso che sia un buon momento per collezionare cose e dare un senso agli oggetti. Dobbiamo creare un mondo tra le nostre quattro mura, un luogo di gioia e colore, pieno di stimoli che ci incuriosiscono. Non è una lezione di stile, ma una strategia per restare fedeli a ciò che siamo. Dobbiamo ricordare com'è il mondo, mantenerci in contatto con quello che c’è là fuori e riconnetterci con tutto quello che ci fa stare bene ed è fuori dal nostro guscio. Per ricordare che c’è vita fuori di casa e non solo pandemia.

È una bella casa quella che descrivi, piena di calore e senso. C’è qualcosa di cui essere grati a questa pandemia, quindi?

L’impressione è quella di vivere in un momento molto simile a quello che hanno vissuto i nostri nonni all'indomani della guerra. C'è molto dolore, sofferenza, disagio, stiamo piangendo i nostri morti ma ci stiamo anche preparando al futuro. Volevamo reinventare la società e il design: ora abbiamo la possibilità di farlo: sul serio, con urgenza, per necessità. Abbiamo anche il vantaggio di aver capito il senso vero dello stare insieme e c’è un impeto condiviso verso la costruzione di un senso di comunità, di un'esperienza comune, di trovare nuovi modi di connetterci non solo per lavorare ma per rimanere vicini mentalmente ed emotivamente. È un grande test anche per il design: che dovrebbe ispirare ottimismo e supportarci nell’enorme cambiamento che ci aspetta.

 

Ha collaborato Elisa Massoni.

In apertura: ritratti di Edward Barber e Jay Osgerby. Foto verticale di Dan Wilton.