Dallo scouting di fibre e imbottiture provenienti dal riciclo alle novità distribuite lungo tutto un anno: Patrizia Moroso, imprenditrice e art director, racconta come la creatività progettuale si incrocia con la sostenibilità.

Un sorriso soddisfatto illumina il volto di Patrizia Moroso. Sulla scrivania dell’art director di un’eccellenza storica del made in Italy come Moroso sono atterrati qualche giorno fa i campioni di quella che, più avanti, potrebbe diventare la base per un nuova resina strutturale sostenibile, sintetizzata da una startup campana in collaborazione con un ateneo. “Sono le prime prove, sperimentali ma interessatissime, di una resina fatta con polistirolo e vetroresina di riciclo. C’è un mondo di piccole aziende e startup che da anni porta avanti ricerche importanti. La sfida è riuscire a fare prima o poi di questi materiali strutture per gli imbottiti e le imbottiture stesse”.

Dunque industria del mobile e sostenibilità s’incontrano davvero come sul suo tavolo adesso?

Ormai sì, per fortuna. Quella che inizialmente era la storia di poche realtà coraggiose, sta diventando il mainstream. È una meravigliosa rivoluzione che siamo costretti a fare, e che forse è il lascito più importante di quest’anno difficile. In poco tempo, tante di quelle fibre che fino a un attimo prima erano sperimentali sono diventate disponibili per il mercato. Nel campionario dei produttori di tessuti almeno la metà delle fibre arriva dal riciclo. E sono morbide, raffinate, elastiche. Il pubblico le richiede, ha iniziato ad apprezzarle nella moda e ora se le aspetta anche dall’arredo. Questa richiesta dal basso è diventata senza dubbio un argomento di marketing e di comunicazione, e io dico: va benissimo, se è la spinta per andare avanti.

Resta da vincere la sfida più impegnativa, quella dell’alternativa al poliuretano.

Sì: mentre le ovatte derivate dal riciclo, per esempio del Pet, sono tantissime e in varianti numerose per qualità e prezzo, sul fronte dell’imbottitura la strada da fare è ancora tanta. Ma sono ottimista: chi lavora per produrre l’alternativa, sa che le aziende del nostro settore non aspettano altro che accoglierlo a braccia aperte.

Questi campioni di ricerca le arrivano spontaneamente o li va a cercare lei?

Entrambe le cose. La startup campana, per esempio, mi è stata segnalata. Il mio lavoro è anche andare a caccia di questi materiali innovativi, che non si limitino a diventare elementi di decoro ma, con le giuste finiture, possano essere buone strutture portanti. Navighiamo in mare aperto, ma prima o poi approderemo da qualche parte e sarà la svolta.

Sostenibilità vuol dire ricerca, e dunque riscoperta di un tempo lento. Come è stato il 2020-21 di Patrizia Moroso?

Io penso che il pensiero sostenibile sia un pensiero generativo. Essere circolari non vuol dire fare le stesse cose di sempre con materiali ecologici, ma inventarsi nuovi modi se non, addirittura, cambiare obiettivi. In questo senso credo che molto abbia da insegnarci il cibo: negli anni, la riscoperta di certi ingredienti della tradizione o il biologico sono passati da tendenza di nicchia a gusto diffuso, anche grazie all’opera di qualche chef stellati. Ecco, con i materiali sostenibili sta iniziando ad accadere la stessa cosa: all’inizio erano come il cereale antico, duro da masticare, ora stanno diventando patrimonio diffuso.

Tempo lungo vuol dire anche sottrarsi alla frenesia della nuova collezione a ogni costo. Che anno sarà quello di Moroso?

Non sentiamo il bisogno di tirare fuori tutte le novità in una volta sola. Anche perché ci piacerebbe capire quando potremo tornare a farlo come fino a due anni fa… Per questo, abbiamo scelto una modalità ‘liquida’: più occasioni di incontro distribuite lungo tutto l’anno quando avremo le novità pronte da mostrare. Il Covid ha imposto un cambiamento spazio-temporale, ogni azienda si sta dando la sua strategia: la nostra è di comunicare quando siamo pronti e ha senso farlo.

Come entra la sostenibilità nel design di Moroso?

Per esempio con un tessuto in poliestere riciclato disegnato da Patricia Urquiola per Kvadrat e usato per una sua poltrona. E poi, come dicevo prima, con qualcosa che non è sostenibile perché fatta con materiali ecologici, ma perché figlia di un approccio nuovo e sostenibile in sé: due anni fa, Ron Arad è andato a Dakar per la prima volta in vita sua e ha messo su una collezione di quattro sedute con giovani artigiani del Senegal. Abbiamo presentato i prototipi nel 2019, da poco sono finalmente in produzione. È un progetto a cui tengo moltissimo perché arriva dall’idea di avere delle creazioni di Ron che non nascano da stampi, né da macchine che non riuscirebbero mai a riprodurre le curve tipiche del suo design. La Modou Collection, dal nome di uno di questi artigiani senegalesi, è nata dalla capacità unica di questi giovani di piegare il ferro e intrecciare i filati. La sostenibilità deve essere anche una pratica umana, un incontro di mondi altrimenti impossibile, la leva che dà vita a qualcosa che prima non c’era. Ron s’è innamorato del Senegal e ha deciso di andare lì a scolpire le sue opere d’arte. Una cosa che mi rende felice.