La metodologia di progetto dell’architetto Corrado Papa. Per non disperdere la memoria dell’identità siciliana e scrivere un futuro possibile dei suoi saperi e sapori

Architetto all’Università degli Studi di Firenze, Corrado Papa è un progettista intimamente connesso alle sue radici siciliane. Sarà che, dopo aver iniziato a svolgere l’attività professionale a Milano, ha fatto ritorno a Noto, dove è nato nel 1961 e dove oggi vive e lavora per partecipare al rinascimento della città, capitale del barocco siciliano, colpita, a partire dal 1989, da crolli sismici. Fatto sta che dell’humus di questa terra, proclamata nel 2002 dall’Unesco patrimonio dell’Umanità, lui ha imparato a conoscere molto bene consuetudini, luoghi, storie e la possibilità di rendere sostenibile lo scenario abitativo contemporaneo, nell'ottimizzazione delle risorse e nel recupero di materiali a chilometro zero. Così fra tradizione e modernità, incarichi pubblici e privati, negli anni Papa è diventato un appassionato cantastorie di paesaggi netini tailor-made e atemporali, ricondotti alla forma di architetture 'site specific' che rafforzano sempre il dialogo tra costruito e natura.

Siano queste ascrivibili a interventi di ristrutturazione di edifici, restauro di palazzi monumentali e chiese, recupero di ville ottocentesche e masserie, opere di ampliamento e riqualificazione urbana o di nuova progettazione. Negli ultimi anni la sua ricerca si è poi focalizzata sulla riconversione di antiche strutture in chiave ricettiva. Ne è un esempio l’esclusivo resort Il San Corrado di Noto della catena Relais & Chateaux, che interpreta un lusso di matrice internazionale in un manufatto di metà '800 appartenuto a Corrado Nicolaci, ultimo principe di Villadorata. Ma molte altre sono le realizzazioni, anche più semplici, ben riconoscibili nell’appartenenza a un territorio e a un gusto personale che portano la firma del progettista.

C’è un fil rouge che accomuna i suoi lavori?

Uno, senza dubbi, è l’approccio progettuale. Il mio è sempre molto delicato, di cancellazione dell’io, di salvaguardia e recupero dell’identità autentica del preesistente naturale e antropizzato nel quale sono chiamato a intervenire.

Ci racconta la storia dell’antico baglio ristrutturato e riconvertito all’ospitalità, che pubblichiamo in queste pagine?

Si tratta di una masseria datata tra fine '700 e inizi '800, ubicata nel territorio marinaro di Noto, che allora era un deserto mentre oggi, densamente urbanizzato, è conosciuto come la zona lido della città. È curiosa, perché è stata costruita in prossimità del mare: trovarne una così è quasi impossibile storicamente, considerato il timore dei nostri avi verso le continue e devastanti incursioni saracene. Invece, con grande forza vitale e combattiva, in questo luogo produttivo, dentro una fortificazione chiusa all’esterno, con piccole finestre e altissime grate, si lavoravano le mandorle e si pigiava l’uva. La vita si svolgeva tutta all’interno del baglio: un cortile centrale con intorno fabbricati destinati alle attività agricole, quindi magazzini, depositi, opifici, un pozzo centrale, una bellissima cisterna e, al solito, la piccola residenza padronale a un piano elevato nobilitata da un intervento in stile liberty agli inizi del '900.

Quindi la grande operazione qual è stata?

È stata quella di recuperare l’identità e la bellezza del manufatto originario, togliendovi tutte le superfetazioni che si erano stratificate nel corso del tempo. Con l'intenzione di evitare compenetrazioni arbitrarie, il mio obiettivo è stato quello di stabilire una congruità tra l’unità funzionale della camera e l’unità spaziale tipica del passato. Le dimensioni spaziali dovevano coincidere. Questo ha portato a una diminuzione del numero di stanze ma anche a un grande vantaggio estetico. Le vecchie stalle sono state trasformate anch’esse in camere, ciascuna dotata di una piccola piscina privata. Il ridisegno della piscina esterna ha trovato nuovi allineamenti con le geometrie lineari del baglio e una forma archetipa che richiama quella di un ampio abbeveratoio. Negli ambienti interni abbiamo poi ricostituito tutto l’apparato delle volte dei magazzini, tessiture e controsoffittature varie, restaurato le murature antiche e ripristinato le pavimentazioni in pietra di Noto, come erano in origine. La pietra lavorata a mano valorizza la patina del tempo insieme agli intonaci materici stesi con un mix di calce, terra ed erba. E i bagni, proprio per conservare quell’unità spaziale di cui dicevo, sono diventati delle superfici permeabili di cristallo trasparenti dentro scatole murarie rivestite con cementine di recupero. Le soluzioni sono nate giorno dopo giorno in cantiere, dialogando con maestranze locali, rimuovendo intonaci o aprendo pareti murate e incorporando elementi desunti dalla tradizione, come gelosie in ferro, piani d’appoggio in noce e pochi altri segni essenziali. D’altronde, non c’erano disegni di riferimento in archivio con cui confrontarsi.

Diverso è stato il progetto della casa privata nella campagna di Noto che guarda il mare. In questo caso come si è sviluppata la realizzazione ex novo?

Qui il preesistente era solo un impianto di ulivi relativamente giovane e su questo si è inserito, nel rispetto della geometria lineare del sito, una stecca, una tipologia essenziale e rigorosa, con un concept preciso. L’idea è stata quella di espiantare un filare di ulivi e sostituire un sesto agricolo con un sesto architettonico – la traduzione di una distanza codificata asse albero di circa sei metri in una costruzione larga sei e lunga circa trenta metri. In questo filare costruito il paesaggio diventa elemento fondativo dell’architettura. Perché nella transizione dalla campagna, orientata a nord, al mare, che è a sud, grazie all’allineamento perfetto delle aperture, la natura del luogo pervade gli ambienti dialogando con un fronte unico e con la zona d’ingresso, dove la tradizionale muratura in pietra a secco definisce l’accesso al terreno agricolo. L’ascensione del volume è sottolineata dal taglio delle piccole scale lineari che portano al piano terrazzo-solarium. In senso orizzontale, invece, l’architettura è ritmata dalla successione in linea delle funzioni che si svolgono all’interno degli spazi. Qui, dal living alle camere (due stanze e un piccolo studiolo), tutto avviene nel passo dei sei metri e chi vive all’interno della casa può godere al tempo stesso la vista su due paesaggi speculari, quello dell’uliveto e quello del mare. La compenetrazione totale è rimarcata dai materiali adottati. Il cemento industriale della pavimentazione diventa il trait d’union tra l’interno e l’esterno; gli intonaci tirati a calce cullano quel desiderio di morbidezza che proprio la stesura a mano riesce a donare, mentre la luce si posa sulle superfici con effetti di chiaroscuro cangianti. Due verande fatte di incannucciato sostanziano infine le promenade esterne affiancate da un lato e dall’altro del corpo di fabbrica come ulteriori tessiture del manufatto che nei rivestimenti privilegia il sincretismo materico tra la pietra di Noto e il legno.

Che cosa rappresentano i materiali per lei?

Sono espressione del saper fare di un territorio, di cultura e di un mestiere. Nelle mie architetture le pietre sono sempre quelle del posto, gli smalti pure, le piastrelle sono di recupero o di ceramisti che realizzano tutto a mano singolarmente. Gli artigiani restano la risorsa più preziosa di un luogo. La mia ostinazione nel valorizzare processi costruttivi e tecniche del passato, senza necessariamente utilizzare le tecnologie di oggi, è il mio modo di progettare un’esperienza autentica di vita siciliana, senza l’ansia della perfezione industriale e della performance.

Se dovesse spiegare qual è il motore della sua architettura...

Senza dubbio è il genius loci. Non credo di poter concepire a distanza di un anno o dieci anni un progetto differente da quello che ho già realizzato. Non riesco a metter mano alla matita, a un segno sul territorio senza prima aver capito qual è il più adatto per quel luogo. Il mio repertorio si genera da qui. Attingo ovviamente da conoscenze di materiali, da esperienze pregresse, dal visto, dal vissuto, dalla memoria, ma l’interpretazione dello spirito del luogo è ciò che guida e declina la mia grammatica ogni volta in modo differente. Non è questa la scelta più comoda sul piano professionale ma è quella che mi dà più soddisfazione, perché è in grado di restituire un profondo amore per le mie radici.

Progetti di Corrado Papa - Foto di Alfio Garozzo