I grandi registi ricorrono spesso ai campi vuoti. Sembrano inutili a portare avanti la narrazione ma – proprio come accade negli interni delle case – la riempiono di significato

Nel linguaggio cinematografico, i campi (o i piani) vuoti sono quelle inquadrature prolungate dove la figura umana è assente o marginalizzata, e che non sono utili a portare avanti la narrazione. Il cinema di Antonioni vi ricorre spesso, e con esiti straordinari: lunghe riprese di paesaggi o di interni dove i personaggi non sono contemplati o lo sono appena. Nelle opere del regista ferrarese, questa soluzione linguistica serve sia a generare composizioni plastiche (il cinema è un'arte visiva, non deve continuamente raccontare qualcosa) sia a rispecchiare il vuoto della condizione umana: quella celebre incomunicabilità della quale Antonioni è stato eletto cantore. Ai campi vuoti ricorre spesso il cinema d'autore, specie orientale (un nome su tutti, il compianto Edward Yang), ma anche l'horror ha spesso dimostrato di saperli inglobare nella propria sintassi con risultati di grande intelligenza.

Prendiamo Paranormal Activity (2007) di Oren Peli. La storia si può scrivere su un post-it. Una giovane coppia molestata da eventi apparentemente inspiegabili (rumori di passi, scricchiolii), compra una telecamera e la installa in camera da letto, lasciandola accesa tutta la notte per cercare di registrare la causa di questi fenomeni. Composto unicamente dalle riprese amatoriali effettuate dai due protagonisti, il film viene girato in dieci giorni nella casa del regista con un budget di poco superiore ai 15.000 dollari e – distribuito come se si trattasse di un montaggio di filmati reali messi a disposizione dalla polizia (il cosiddetto found footage) – incassa 193 milioni di dollari in tutto il mondo. Una gallina dalle uova d'oro che sa sfruttare al meglio la paura (ancestrale, irrazionale) di scrutare una porzione di spazio dove potrebbe succedere (o sta già succedendo) qualcosa. La grammatica delle immagini è elementare: per lunghi tratti lo spettatore è costretto a fissare una camera da letto in cui a sinistra si scorge una porta aperta verso gli altri ambienti della casa, e a destra la coppia che dorme. L'orologio della videocamera, in basso, segna lo scorrere del tempo. Ed è proprio la dinamica tra il tempo che scorre e l'immobilità del vuoto inquadrato a generare la paura: quanto durerà ancora quel vuoto? Cosa c'è, davvero, in quella stanza?

Sull'angoscia del vuoto lavora anche il recentissimo L'uomo invisibile (2020) di Leigh Whannell, dove una donna deve liberarsi del fidanzato violento e manipolatore ma, quando pensa di esserci riuscita, scoprirà che l'uomo ha sviluppato un costume con cui rendersi invisibile e continuare a tormentarla. Come ogni B movie che si rispetti, il film di Whannell sa annusare l'aria, riesce a captare i fenomeni sociali della contemporaneità e servirsene per i suoi scopi e con le proprie forme. Così, questa rilettura di un classico del fantastico riesce a farsi metafora del #metoo, attraverso un personaggio femminile forte – e la scelta della Elisabeth Moss di The Handmaid's Tale per interpretarlo non è certo casuale – vittima di stalking che, in un finale da non rivelare, saprà ottenere la sua rivincita. Opera capace di lavorare su intelligenti paradossi – il fidanzato stalker è un genio dell'ottica, e il costume che inventa è interamente rivestito di micro telecamere: uno strumento nato per registrare il visibile utilizzato per scomparireL'uomo invisibile subisce un destino paradossale: quello di sparire a sua volta (almeno dalle sale, è disponibile per la visione su alcune piattaforme, anche in Italia) a causa del Covid-19 e della conseguente chiusura dei cinema. E allora, guardandolo in questi giorni, è impossibile non pensare che all'interno di quelle lunghe inquadrature su ambienti deprivati della presenza umana, su quella asettica combinazione di volumi in vetro e cemento armato che definisce la milionaria residenza del 'cattivo', si stia nascondendo non la brillante invenzione di uno sceneggiatore, ma quel nemico, altrettanto invisibile che sta modificando il mondo in un modo tale che forse, finito tutto questo, non saremo neppure più in grado di riconoscere.

La carrellata sul cinema degli spazi disabitati si chiude con Il lago delle oche selvatiche (2019), l'ultima opera di un grande autore orientale, Diao Yinan. Si tratta di un noir in cui una prostituta deve aiutare un uomo, in fuga per aver ucciso un poliziotto. Come si diceva all'inizio, i campi vuoti non rappresentano una novità linguistica per il cinema orientale, ma se in questo caso acquistano una valenza diversa, realmente sinistra è per un motivo preciso: il film è stato interamente girato nella Wuhan pre-Covid. Inevitabile, ancora una volta, la tentazione di riempire quei vuoti attingendo a quelle inquietudini con cui dovremo convivere per chissà quanto tempo a venire. E conturbante è ancora, nel film cinese, l'immagine della polizia che arriva sul luogo del delitto indossando guanti e mascherine. Sono segnali premonitori propri della vera arte, esempi di ciò che il cinema, quando è grande, può fare: rendersi permeabile affinché la realtà ne ridefinisca e ne ampli la lettura, facendosi poroso quel tanto che basta perché la realtà lo attraversi lasciandovi i segni del proprio passaggio.