Il confinamento non ha interrotto il lavoro delle scuole e delle facoltà di design e di architettura. Anzi, ha fatto emergere significati nuovi e sperimentazioni impensabili prima del lockdown. E ora? Si tornerà nelle aule, perché il progetto è presenza fisica, esperienza del corpo

Un soggiorno come sfondo. Le librerie, il divano. Le pareti bianche, la porta a destra. Di fronte una televisione accesa sul Canale 555, che trasmette le immagini di una telecamera fissa su Piazza San Pietro. Perché San Pietro? “Perché io sono a Roma” spiega Paolo Ferrarini, “e per insegnare online è fondamentale parlare di sé, della propria vita. Rendersi umani per accorciare le distanze e supplire all’assenza fisica. Questo mi ha reso più vero, e mi ha aiutato anche a vedere meglio le esigenze degli studenti, la loro fame di contenuti e di riflessioni”.

Paolo Ferrarini è un professore di metodologia della ricerca in diverse scuole di design in Italia. Uno delle centinaia che in pochi giorni hanno contribuito all’accelerazione digitale dell’insegnamento universitario. Un’evoluzione che quasi miracolosamente si è avverata, nello stupore generale. “Nessun miracolo” spiega Ferrarini. “Il designer prova, cerca soluzioni. È un’attitudine che crea competenze adatte a rispondere con efficacia alle situazioni di emergenza. Il DNA progettuale ha reso possibile non abbandonare una generazione di studenti che impara i fondamenti, della vita e del progetto, in remoto. Ne parleremo per anni”.

Lezioni di disegno tecnico e empatia

Ogni scuola l’ha fatto nel solco del proprio genius loci. Workshop, ricerche, revisioni, laboratori non si sono fermati, commenta Ferrarini. Il semestre sta terminando on line. Alcuni si sono laureati, altri hanno dato esami. Ma la parte interessante di questo periodo è nello spazio di ricerca che il confinamento ha contribuito a creare. L’esperienza ha dato vita a considerazioni inaspettate, alla rivalutazione delle qualità istrioniche degli insegnanti, alla capacità di trovare soluzioni creative ad ogni esigenza. Ad esempio costruire una piccola struttura home made per posizionare la telecamera del cellulare in modo da mostrare come si disegna una sezione. Ovvero dall’alto, come accadrebbe dal vero. Un escamotage descritto dall’instant book Re-Azioni realizzato da Claudio Larcher e dal suo dipartimento di design alla NABA, Nuova Accademia di Belle Arti‎. Una raccolta di riflessioni e attività che hanno reso possibile riconoscere i contorni di uno sforzo collettivo intelligente per non abbandonare gli studenti. Sia che si parli di disegno tecnico, che di empatia e inventiva per insegnare nel modo più efficace anche da lontano. Un assunto su cui Riccardo Blumer, direttore dell’Accademia di architettura di Mendrisio, ha costruito una delle più radicali didattiche progettuali.

On line o su un palco, l’architettura si insegna fuori dalle aule

“Ho cominciato a insegnare in scuole e università minori” ricorda Blumer. “Avevo una certa libertà di scelta, che mi ha spinto a portare in aula degli esercizi che mi sembravano importanti. L’architettura ha un aspetto pubblico, di relazione. Ho portato i ragazzi fuori dalle aule, all’aperto, sulle spiagge, nelle piazze”. Gli esercizi e le pratiche che poi sono diventate performance, sperimentazioni fisiche, in cui il corpo, inteso come organismo individuale e collettivo, misura l’esperienza e la traduce in informazione.

La parte istrionica, anche nel caso di Blumer dimostra la propria efficacia. “Sono affascinato dal circo” spiega. “Una circonferenza di 7,5 metri quadrati in cui accade tutto, attraversato a spinte trasversali, dalla forza centrifuga, dalle dinamiche che non sono percepite dallo spettatore, ma che influenzano ogni scelta spaziale”.

Partire dal corpo

Esiste evidentemente un’analogia con lo schermo di un computer, un confine che riduce le informazioni e mitiga la comunicazione non verbale, decurtando tutti di informazioni importantissime per la relazione. “È un tema su cui occorrerà ragionare: come stare insieme, la presenza geografica, la densità in quei riti pubblici e collettivi che sembrano essere necessari alla nostra società”. E il direttore fa cenno alla necessità di intendere il progetto e il suo insegnamento come pratica in cui ogni aspetto umano è compreso. Anche quello della pandemia.

“Sto lavorando a una video performance coi miei 140 studenti, ovviamente on line” spiega Blumer. “Il tema è l’articolazione. E l’idea è di sperimentare il movimento delle braccia, delle mani. Di lavorare su un tempo condiviso, i 4/4, che mette in scena le articolazioni attraverso un progetto, confinato nella sincronia”. A cosa porta tutto questo? Alla progettazione di una maniglia. Per Blumer il progetto è un’estensione del corpo e delle sue funzioni.

Dissacrare le regole del digitale

Un corpo in qualche modo negato dalla distanza. “Il digitale non è la trasposizione dello spazio fisico” precisa Sara Ricciardi, che insegna Social Design alla NABA. “Scompone l’ordinario ed è necessario poi trovare un modo per ricomporlo, attraverso degli esercizi e delle pratiche diverse. Ad esempio lasciando che degli studenti usino i contenuti del tuo desktop per costruire una lezione”. Un esercizio che interrompe il limite e rende più fluido lo spazio virtuale.  I progettisti sono persone che costruiscono continuamente modalità di emergenza e crisi, secondo la designer. Ed è questa attitudine che li mette in condizione di migliorare lo status quo. Anche attraverso un utilizzo dissacrante del digitale. Quindi si può fare a meno della presenza fisica? Ovviamente no, tutti concordano. Tornare nelle aule, nei laboratori, per le strade al più presto. “Perché il progetto è esserci, stare, sentire il corpo” conclude Sara Ricciardi.


Nell'immagine di apertura, installazione Automated Architectures di Riccardo Blumer alla Biennale di Architettura di Venezia 2018.