I camaleonti cambiano il colore della pelle per adattarsi all’ambiente. I bruchi assumono addirittura una forma e un aspetto differente diventando farfalle. Gli uomini fanno lo stesso e non solo nell’aspetto ma anche nel loro modo di essere, durante le varie fasi della vita. A cui corrispondono, nei casi più felici, evoluzioni nei modi di vivere, abitare e relazionarsi con lo spazio interno ed esterno delle nostre case.
In questo periodo, di trasformazioni e di metamorfosi ne abbiamo viste molte. Ora sta a noi abbracciarle, accoglierle, riconoscerle e trovare un nuovo equilibrio quotidiano. “Sii il cambiamento che vorresti vedere avvenire nel mondo” professava Gandhi. Certo, il grande profeta si riferiva alla natura delle persone, ma questo aspetto di trasformazione può essere esteso a qualsiasi tratto della vita, incluso l’abitare.
Ma come si fa? Il segreto, abbiamo capito parlando con tre architetti che, dall’altra parte del mondo, hanno adattato alcune abitazioni sulla base dei nuovi stili di vita di chi le abita, sembra essere uno sguardo diverso sul progetto. Che, accanto all’uso specifico di materiali, all’ideazione di dettagli architettonici o alla scelta di finiture ci si concentra sull’uomo, sul suo essere, personalità e stile di vita. L’interior design come esercizio psicologico…
Work-life from home life
Uno dei cambiamenti più evidenti di questi ultimi mesi è stata la necessità di far convivere la domesticità con la vita lavorativa. “Mentre i modi in cui lavoriamo e viviamo continuano ad adattarsi e cambiare grazie ad ambiente, rivoluzioni e tecnologia, le nozioni di progetto tradizionali vengono messe in discussione e appaiono nuove opportunità”, dice Matt Gibson, architetto di Melbourne. Per lui, sconvolgere e ribilanciare la relazione tra i luoghi di lavoro – carichi di stimoli, popolosi e costantemente raggiungibili – e quelli di vita familiare è da sempre un must. Con un occhio speciale alla natura. “Lavorare da casa deve diventare la nuova norma” continua Gibson, precursore dello slow easy living. Il suo antidoto è semplice, riassunto in poche linee e con pochi materiali nel progetto Writer’s Shed. “Un modello da seguire, un esempio di come spazi di lavoro semplici e comodi possano essere facilmente inseriti nelle residenze”, spiega. Costruito senza bisogno di permessi, come fosse un casotto per gli attrezzi posizionato nel giardino di una residenza nel cuore di Melbourne, sembra un disegno infantile. È una semplicissima pianta rettangolare con un angolo tagliato a 45 gradi lasciato aperto sul paesaggio grazie a una finestra oversize. Ma questa soluzione low-tech, low-budget, low maintenance e self-sufficient è stata progettata con tanti piccoli accorgimenti che la rendono unica nel suo genere. Come l’uso di un solo materiale. Lo studio, di dieci metri quadrati, ha una struttura di compensato che disegna sia l’involucro che gli arredi. Il tutto è ricoperto da una membrana isolante che serve anche da fertilizzante per l’edera che la avvolge rigogliosa. Un’idea per far sì che lo studio sia parte integrante e vivente del giardino, ma anche per creare un microclima interno naturale. Uno spazio intimo e privato dove recuperare energie, riflettere e lavorare da casa in modo indipendente.
Mix use community
Pensava a Palladio e alle sue Ville Venete l’architetto Timothy Hill di Partners Hill quando ha ideato Daylesford Longhouse, una fattoria sui generis nelle campagne vicino a Melbourne. Del genio italiano a Hill piaceva soprattutto la capacità di mescolare diversi elementi di vita quotidiana – vivere, lavorare, contenere, fare… – sotto lo stesso tetto. Daylesford Longhouse è uno spazio magico che per il designer Ronnen Goren e il suo compagno Trace Streeter racchiude il sogno di una vita: “allontanarsi dalla città per vivere in uno spazio completamente autosufficiente”. E così è. Longhouse, una sorta di serra di 110 metri di lunghezza – esattamente come due piscine olimpioniche – non solo ospita sotto lo stesso tetto una casa, un giardino privato, una fattoria, una scuola di cucina, una stalla, un laboratorio d’arte, ma è anche stata progettata per ricaricarsi e sopravvivere autonomamente. Energia solare, purificazione dell’acqua piovana, riciclo di scarti della campagna, protezione dai raggi UV. Un ciclo continuo, un movimento di energie circolari che si sposa perfettamente con la flessibilità del design degli spazi che convivono in unione fatta di contrapposizioni armoniose. Internamente, infatti, i locali sono divisi in base a una serie di contrasti: grande contro piccolo, vecchio contro nuovo, agricolo contro raffinato, interno contro esterno. Creando uno spettacolo di sorprese continue. Come a sorpresa è il nuovo modus vivendi di questa coppia cittadina. Ora felice di sentirsi, quasi in modo surreale, in stretto contatto con la natura.
Multigenerational living
La riconquista delle tradizioni, la rinascita della famiglia, le connessioni ricucite. Quanto si rivela importante oggi il tenere insieme diverse generazioni? Solo ieri si parlava di collaborative living oggi di multigenerational living. Come si può convivere sotto lo stesso tetto e beneficiare dell’apporto culturale ed educativo che deriva dall’incontro di persone di età diverse? Disegnando interni dove gli spazi privati rimangono sacri e ben divisi, mentre quelli comuni si trasformano in piazze, aie e giardini, pronti a connettere e far incontrare i diversi membri della stessa famiglia.
Warren Haasnoot e Greg Lee di Curious Practice, un ufficio di progettazione di Newcastle, alle porte di Sydney, ha firmato Vikki’s Place, una casa multigenerazione dove non esiste una vera divisione tra gli spazi, ma un movimento fluido tra i luoghi privati e quelli comuni. Vikki, la padrona di casa, è una persona molto aperta, pratica e particolarmente innamorata delle culture orientali, sia per l’uso dei materiali, che per il modo di vivere gli interni. E questo progetto riflette esattamente la personalità della proprietaria. Le stanze si rincorrono una con l’altra lasciando libero accesso alla luce e alla convivialità. “Abbiamo voluto rispettare la genuinità di Vikki” spiega Warren Haasnoot, “regalando alla materialità un ruolo primario”. Infatti tutte le finiture vengono lasciate grezze, reali, a vista. Cemento nella parte al piano terra, che per ragioni di allagamento crea una solida base per questa palafitta contemporanea. E acciaio corrugato in netto contrasto con il vetro e il compensato per i piani superiori, che ‘galleggiano’, leggeri, a mezz’aria come un’isola nell’oceano. Le stanze sono arredate dalla luce e da arredi multifunzionali che regalano ulteriore dinamicità. Un sottile lavoro di bilanciamento tra privacy e comunità, tra leggerezza e solidità, tra chiusura e apertura. Come quella che si è creata tra le tre generazioni che da poco tempo convivono sotto lo stesso tetto.
Anche uno dei più stimati progettisti giapponesi, Nendo, abbraccia il concetto del multigenerational living con Stairway House a Tokyo, un progetto di pura semplicità stilistica. Un progetto che usa forme ed elementi comuni, architettati alla perfezione per danzare all’unisono al soffiare del vento. Dietro a una facciata impenetrabile, completamente chiusa e senza finestre, si apre la parete posteriore interamente vetrata, lungo la quale si spiega una lunga scalinata di cemento che attraversa i tre piani dell’abitazione. La scala funge da elemento di scambio, di unione, di connessione tra le famiglie e tra i vari piani dell’abitazione. “Una struttura, che non solo collega l'interno al cortile o lega una generazione all'altra” spiega Nendo “ma mira anche ad espandersi ulteriormente per unire gli interni con la città”. Un elemento di dissonanza che svolgendosi con la sua angolazione inaspettata crea piccoli momenti non convenzionali in cui gli angoli ‘si scontrano’ con le pareti del perimetro esterno, assolutamente diritte. In questa palette sobria e minimale, fatta di vetro, luce, cemento e natura, la scala è un vero e proprio organismo vivente che respira la vita nel calcestruzzo e funge da tessuto connettivo. “La scala, contemporaneamente, decostruisce e riunisce gli spazi” sottolinea il designer giapponese “ e mi piace pensare che la sua natura scultorea assume molte personalità. ll suo corpo si trasforma costantemente e si conforma al nuovo ruolo che svolge mentre si snoda attraverso il tessuto abitativo. Il gradino diventa uno scaffale, una divisione di confine ma anche un giardino e un portale che collega lo spazio interno a quello esterno”.
Foto di apertura, ‘Confondersi per nascondersi’ di Giorgia Bellotti - Giorgibel @giorgibel. Lo scatto ha partecipato al contest ‘Home’ organizzato dalla Open Doors Gallery di Londra, di cui la fotografa italiana è entrata a far parte. Nell'articolo altre due opere di Giorgibel: ‘Confused’ e ‘Hidden’. Cifra stilistica di tutte le opere è l'autoritratto, nel quale l'artista non svela mai il suo volto. Nella sua ricerca, con la quale indaga stati d’animo ed emozioni personali, l’ambiente, spesso abitativo, diventa coprotagonista della scena.