È il mercato a dettare le regole del riciclo della plastica. Ecco perché non sarà mai la soluzione ai nostri problemi

Spesso siamo convinti che le plastiche, separate diligentemente negli appositi contenitori, possano dar vita a qualcosa di nuovo, diventando una risorsa e non più un rifiuto da smaltire. Non è proprio così.

Nel mondo solo il 15% dei rifiuti di plastica viene riciclato, secondo i dati dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico): il 25% viene bruciato in inceneritori o termovalorizzatori, il 60% va in discarica e viene bruciato all'aperto (con conseguenze per l'ambiente e la salute) oppure finisce direttamente nell'ambiente (nel mare, in particolare, o in discariche improvvisate a cielo aperto).

Un altro dato inquietante è quello della plastica prodotta nel mondo che supera di ben otto volte la quantità di plastica riciclata.

Diverse sono le motivazioni, prima fra tutte il costo superiore della plastica riciclata rispetto a quella nuova. Non solo, le sue qualità intrinseche sono spesso inferiori rispetto al prodotto nuovo: la maggior parte della plastica, infatti, viene riciclata utilizzando metodi meccanici, in cui il materiale è ridotto in granuli che poi vengono fusi prima di essere modellati in qualcosa di nuovo. Il problema nasce proprio con la fusione della plastica che cambia e riduce le proprietà e le qualità del materiale, limitando così la gamma di prodotti in cui può essere utilizzata la plastica riciclata.

Il riciclo della plastica non è dunque solo una questione etica, ma, soprattutto, di mercato.

Il PET delle bottiglie e l'HDPE (polietilene ad alta densità) dei flaconi di detersivo sono i più riciclati (dal 19% all'85% a seconda dei paesi), mentre il polipropilene di tubi e cavi elettrici e il polistirene sono recuperati dall’1% al 21%, nonostante siano plastiche facilmente riciclabili. Perché? Perché il polistirolo riciclato costa più di quello nuovo e, dunque, non ha mercato.

Oltre a questo esiste anche una questione importante legata alla capacità degli stabilimenti dediti al riciclo: alcuni oggetti in plastica, come per esempio i giocattoli, andrebbero smontati separando i diversi elementi che lo compongono prima del riciclo (per esempio le viti o i cavi elettrici). Questo verrebbe a costare troppo e dunque non vengono riciclati: la maggior parte finisce sottoterra, in un inceneritore o, peggio ancora, nel mare dove, secondo i dati di Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, nel solo Mediterraneo, quasi 50.000 esemplari di 116 specie diverse hanno ingerito plastica. Di cui il 59% di queste sono pesci ossei, inclusi quelli di interesse commerciale come sardine, triglie, orate, merluzzi, acciughe, tonni, scampi, gamberi rossi. Il restante 41% è costituito da altri animali marini come mammiferi, crostacei, molluschi, meduse, tartarughe, uccelli. E gran parte di questi, costituiscono la nostra alimentazione. Dunque tutto torna, danni compresi.

Siamo nell’era del “plastocene”, come alcuni studiosi hanno ribattezzato la nostra epoca. Un’era in cui si parla tanto di riciclo e raccolta differenziata ma dove solo il 20-25% circa di tutta la plastica recuperata nel mondo viene riciclata e trasformata in nuovi oggetti, contenitori o imballaggi, spesso di difficile vendita (come abbiamo già sottolineato, costano di più e non sempre sono all’altezza delle nuove plastiche).

Tutto il resto finisce in discarica o in termovalorizzatori (bruciato per ottenere energia ma con effetti avversi sulla salute dei cittadini e l’ambiente, compresa la gestione degli scarti post combustione).

La domanda che ritorna è dunque una: il riciclo della plastica è un’utopia?

Antonis Mavropoulos, presidente di Iswa - The International Solid Waste Association, un’organizzazione non governativa impegnata nella promozione di una gestione sostenibile dei rifiuti e dell'economia circolare, ha dichiarato recentemente a Repubblica: “Il riciclo da solo non basta. La priorità è spingere le industrie a ridisegnare i prodotti facendo della loro riciclabilità il primo criterio, estendendo il loro ciclo di vita e di riuso”.

La soluzione è dunque nell’economia circolare e nel bloccare la produzione di alcuni materiali che non possono essere riciclati, estromettendoli dal nostro sistema di produzione. Come deciso recentemente dall’Unione Europea per la plastica monouso.

Da quando poi la Cina, nel 2018, ha messo al bando i materiali da riciclo, i costi sono aumentati a dismisura: per fare un esempio, in Gran Bretagna da due anni i prezzi per consegnare i materiali da riciclare sono aumentati del 30-40%. Un’enormità che rende il riciclo un business difficile da mantenere.

Una speranza per la plastica viene dalla scoperta di un gruppo di ricercatori dell’Università di Bath (Regno Unito) che ha ideato un modo per scomporre le materie plastiche a base vegetale nei loro elementi costitutivi consentendo, potenzialmente, di riciclare ripetutamente i prodotti, senza che questo comporti una perdita delle loro proprietà. Una scoperta che potrebbe contribuire, con questo nuovo metodo di riciclaggio chimico, alla creazione di un’economia circolare e potrebbe aprire nuovi orizzonti. Ma senza dimenticare che la chiave per risolvere il problema dei rifiuti in plastica deve essere affrontato con un approccio combinato racchiuso in tre semplici parole: riduzione, riutilizzo e riciclaggio.

 

 

Nelle foto, l'opera ‘Consider yourself as a guest’ dell’artista statunitense Christian Holstad: una cornucopia di oltre 4 metri composta interamente di materiale plastico di recupero, che, in occasione della Biennale di Venezia 2019, ha attraversato il Canal Grande per essere esposta all’Università Ca' Foscari di Venezia. Il progetto, sostenuto da FPT Industrial, pone l'attenzione sull'urgenza di tutelare i mari dall'inquinamento da rifiuti plastici. Ph. Francesca Bottazzin.